di P. Aldino Cazzago
1. Il primo elemento che, a partire dalla vita di santa Teresa di Gesù, papa Francesco mette in risalto nel suo Messaggio al vescovo di Avila è quello della gioia. È un tema per il qualeegli prova una particolare sensibilità e attrattiva, una sorta di simpatia, come dimostrano, prima, il titolo stesso della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, la gioia del Vangelo, poi l’espressione “gioia del Vangelo” che in essa ricorre 5 volte e infine le quasi 80 volte in cui il solo termine “gioia” ricorre nel testo.
La gioia, non servirebbe ripeterlo, oltre ad occupare un posto rilevante nella Rivelazione, dalla Creazione alla Pasqua (cfr. EG,nn. 4-5), è per papa Francesco un principio nell’ottica del quale guardare la vita del credente e della Chiesa: “La gioia del Vangelo … riempie la vita della comunità dei discepoli” (EG, n. 21). In definitiva, “il Vangelo, come egli ha ribadito al vescovo di Avila, non è un sacco di piombo che si trascina pesantemente, ma una fonte di gioia che colma di Dio il cuore e lo spinge a servire i fratelli!”.
2. Se si rilegge con attenzione il Messaggio si troverà in esso, sempre a partire dalla vita di santa Teresa, anche una breve, ma essenziale grammatica della gioia. Agli occhi di papa Francesco la gioia è il riflesso dell’esperienza dell’“amore di Dio” e per questo motivo essa non può che essere “contagiosa”. Nella vita quotidiana la gioia avviene e si dipana come sequela di Cristo Risorto e proprio perché passa attraverso la “rinuncia” e la “croce” non può che essere “umile” e “modesta”. Essa “non è istantanea, superficiale, tumultuosa”. In quanto “contagiosa”, la gioia è aperta all’altro, non basta a se stessa, “non è egoistica né autoreferenziale” perché gode della “gioia di tutti”. Quando essa è vera, diventa “servizio degli altri con amore disinteressato”.
In tempi in cui la legge del ‘tutto e subito’ è quasi l’unicafrequenza, su cui molti ‘io’ amano sintonizzarsi per ‘sentirsi’, la gioia, vissuta da Teresa d’Avila e descritta da papa Francesco, si configura come un elemento portante di un diversa antropologia in grado di scandagliare più in profondità l’esperienza umana e il nostro vivere quotidiano, a volte, così grigi. È solo questo tipo di gioia che, facendoci alzare lo sguardo da noi agli altri, ci rende capaci di gratuità e, di conseguenza, generosi.
3. La storia dei santi è la più convincete dimostrazione dellostretto legame tra santità, gioia e servizio del prossimo. “La vera santità è gioia”, scrive nel Messaggio papa Francesco. “I santi, prima di essere eroi coraggiosi, sono frutto della grazia di Dio agli uomini”. Come non vedere in queste parole di papa Francesco un riflesso (diretto?) degli insegnamenti del Beato Paolo VI? Quale migliore prova di questo legame tra i due papi del capitolo quarto della Gaudete in Dominointitolato proprio La gioia nel cuore dei santi? o del seguente passo dell’omelia tenuta dal Cardinale Montini il 3 aprile 1961 nel Duomo di Milano? “Vorrei domandarvi, esclamava il futuro Paolo VI, avete mai incontrato un Santo? E se l’avete incontrato, ditemi: qual è la nota caratteristica che avete trovato in quell’anima? Sarà una gioia, una letizia così composta, così profonda, così semplice, ma così vera. Ed è questa trasparenza di letizia che ci fa dire: quella è davvero un’anima buona, perché ha la gioia nel cuore”.
4. Perché anche oggi è allora cosa buona conoscere la vita e la dottrina di santa Teresa di Gesù? Se, come scrive papa Francesco, “ogni santo ci mostra un tratto del multiforme volto di Dio”, allora conoscere Teresa d’Avila significa aprirsi alla possibilità dell’incontro con uno di questi tratti del “volto di Dio”; quel “volto” che, più di ogni altra cosa, sta a cuore anche al Salmista: “Il tuo volto Signore io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Sal. 27, 8-9).
Quale “tratto del multiforme volto di Dio” risplende dall’esperienza spirituale di Teresa d’Avila? La risposta sarebbemolto lunga e articolata; qui, per necessità, ci limitiamo ad un breve cenno. Come emerge dai suoi scritti, frutto della sua esperienza, il tratto del “volto di Dio” che in Cristo emerge è senz’altro quello della “bellezza” da contemplare a da cui lasciarsi guardare. Per Teresa Cristo è “la bellezza più perfetta che si possa immaginare” (Cammino 26, 3): “Mentre il Signore mi parlava, ammiravo la sua grande bellezza e la grazia con cui la divina e bellissima sua bocca pronunciava quelle parole che alle volte mi erano molto severe. Desiderosa di conoscere il colore dei suoi occhi e la sua statura per poterne dire qualche cosa, non vi sono mai riuscita: le mie diligenze non giovavano a nulla. Anzi, appena lo tentavo, la visione spariva completamente. Alle volte vedo che mi guarda affabilmente” (Vita 29,2); “La visione di Gesù Cristo m'impresse nell'anima la sua incomparabile bellezza che ho ancora presente” (Vita 37,4); “O sovrano mio Dio, potenza infinita, bontà suprema, sapienza eterna, senza principio e senza fine! Voi (…) oceano senza fondo di meraviglie, bellezza che in sé comprende ogni bellezza” (Cammino 22,6). Davanti a questa bellezza di Dio in Cristo non resta che una sola cosa da fare: guardarla, contemplarla.
5. Olivier Clément, teologo laico ortodosso, morto nel 2009, aveva ragione quando scriveva che il “cristianesimo è la religione dei volti”: quello visibile di Cristo nel quale si riflette quello invisibile del Padre (cfr. Col. 1,15), quello dei santi in cui, con maggior evidenza, risplende il volto e l’immagine di Cristo (cfr. 2 Cor. 3,18). Nei santi “Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto” (Lumen gentium, n. 50). Anche per noi vale, perciò, l’invito dei primi cristiani: “Cercherai, poi, ogni giorno la presenza dei santi, per trovare riposo nelle loro parole” (Didaché, IV,2).