di P. Stefano Conotter ocd
C’è un breve scritto di Teresa che è pieno di fresco umorismo a dispetto del suo strano titolo: il Vejamen (l’Offesa, dal verbo latino vexare). In esso Teresa risponde alla richiesta del vescovo di Avila di scrivere un giudizio sui testi dei suoi amici, che cercavano di spiegare il significato delle parole interiori udite dal Signore: “Cercati in Me”.
In questo testo Teresa scrive affettuosamente a proposito della spiegazione data da Giovanni della Croce: “La sua risposta contiene una dottrina così eccellente che servirebbe a meraviglia per chi volesse fare gli esercizi della Compagnia di Gesù, ma qui è fuor di luogo… Dio mi liberi da gente così spirituale che vuol ridurre ogni cosa, a proposito o a sproposito, alla contemplazione perfetta! Tuttavia bisogna essergli riconoscenti per averci così bene spiegato ciò che mai gli abbiamo chiesto”. Ancora più simpatico è quello che scrive dell’amato fratello Lorenzo: “Ha detto di più di quanto sapeva, e in grazia del buon umore che ci ha procurato, gli perdoniamo volentieri la poca umiltà d’essersi messo in cose così alte, come lui stesso ne conviene nella sua risposta…”
L’umorismo che contiene questo testo, allo stesso tempo sagace e pieno di affetto, mostra la capacità di Teresa di divertirsi e di far divertire. Colpiscono in modo particolare le circostanze in cui Teresa scrive queste righe. All’inizio del Vejamen leggiamo: “Mi dia grazia il Signore di non dir nulla che mi meriti d’esser denunziata all’Inquisizione, per aver la testa assai stanca, in seguito alle molte lettere e a varie cose che ho dovuto scrivere da ieri sera a questo punto”. Effettivamente Teresa era stata denunciata all’Inquisizione da più di un anno e costretta a rientrare in Castiglia, doveva seguire la crescita della riforma del Carmelo, già minacciata dalla persecuzione che porterà in quello stesso anno all’arresto di Giovanni della Croce. Teresa scrive il Vejamen all’inizio di febbraio e, il giorno 6 dello stesso mese, ha una crisi di sfinimento per eccesso di lavoro e il medico la obbliga al riposo.
Capiamo in questo contesto che il divertimento di Teresa, la capacità di distrarsi, anche in una situazione di estremo affaticamento e di tensione, è una qualità che nasce da una profonda interiorità e che possiamo identificare con la virtù che Aristotele chiamava l’eutrapelia, e che Tommaso d’Aquino traduce in latino con iucunditas. Quello che colpisce è che ambedue la presentino come una virtù morale. Non si tratta semplicemente del buon umore derivante da una bella giornata di sole, da un temperamento naturalmente radioso o da circostanze particolarmente favorevoli. Come per tutte le virtù parliamo di un habitus interiore che si acquista con l’esercizio e che si arricchisce al contatto con la grazia che lo Spirito Santo dona.
Nella Summa Theologiae Tommaso dice che, come il corpo dopo un periodo di lavoro ha bisogno di riposarsi, così l’anima non può rimanere sempre concentrata, senza prendersi dei momenti di rilassamento. Per l’Aquinate è addirittura un peccato essere troppo seri: “È contrario alla ragione - scrive - essere di peso agli altri col non mostrarsi mai piacevoli o con l’impedire il divertimento altrui…, quelli che rispetto al giuoco peccano per difetto, non dicono mai niente di divertente e non tollerano che altri lo facciano, questi stessi sono viziosi, pedanti e maleducati (S. Th. II.II q. 168 a.4). Tante osservazioni che Teresa fa a riguardo delle suore che si prendono troppo seriamente e soprattutto i consigli che dà alle priore a proposito delle sorelle che soffrono di melanconia concordano perfettamente con questa affermazione di Tommaso.
Parlando di questa virtù Dante sottolinea nel Convivio un altro aspetto: “La decima virtù - scrive - si è chiamata eutrapelia, la quale modera noi ne li solazzi facendo, quelli usando debitamente” (Convivio 4,17). Si capisce da questo perché essa è collocata nella costellazione della virtù cardinale della temperanza, che sa umanizzare le passioni moderando il piacere secondo discrezione. È inoltre interessante che l’eutrapelia sia collocata da Dante fra la virtù della veridicità e quella della giustizia. Queste due virtù accompagnano il divertimento che sa fare una battuta, sa ridere di una situazione comica, sa prendere in giro un difetto, senza però cadere nella falsificazione o nella mancanza di rispetto dovuta agli altri. Infatti San Francesco di Sales scrive: Nessun vizio è contrario alla carità quanto il disprezzo e la derisione del prossimo… Cosa molto diversa sono le battute scherzose tra amici. Si tratta addirittura di una virtù cui i Greci davano il nome di eutrapelia: noi diciamo buona conversazione. È il modo di prendersi una onesta e amabile ricreazione sulle situazioni buffe cui i difetti degli uomini danno occasione. Bisogna soltanto stare attenti a non passare dagli scherzi sereni alla derisione. La derisione provoca al riso per mancanza di stima e per disprezzo del prossimo; invece la battuta allegra e la burla scherzosa provocano al riso per la “trovata”, gli accostamenti imprevedibili fatti in confidenza e schiettezza amichevole; e sempre con molta cortesia di linguaggio (Francesco di Sales, Filotea 3,27).
Questa virtù dello scherzo e del buon umore non è da identificare con un atteggiamento di superficialità, ma si incontra piuttosto con una visione profonda della vita e della realtà. Le parole che Giovanni Paolo II scrive a proposito del modo in cui il Card. Spidlik ha predicato gli esercizi spirituali alla curia romana sottolineano proprio questo aspetto: “Abbiamo riso molto durante le sue conferenze, e anche questa è una cosa utile. Egli sapeva presentare in modo spiritoso verità profonde, e in ciò dimostrava grande talento” (Alzatevi, Andiamo! p. 132).
Questa virtù speciale ha un profondo radicamento nella vita spirituale, il suo esercizio implica una grande libertà interiore ed è sostenuto dalla grazia dello Spirito Santo. Nello stesso tempo è una virtù molto umile e molto necessaria nella vita comunitaria. Quante volte una battuta ben detta, una “uscita” sorridente hanno portato aria buona in un ambiente troppo carico di tensioni o di eccessivi impegni? La virtù dell’eutrapelia dà anche la capacità che dona di essere discreti, rispettosi, capaci di discernere il momento giusto, capaci anche di moderare gli eccessi che possono esserci nel gioco e nel piacere? Proprio perché è una virtù, l’eutrapelia cresce praticandola attraverso l’esercizio costante, che a volte implica degli insuccessi, ma anche delle conquiste che rafforzano la carità e la comunione.
Forse Teresa d’Avila ha inventato un esercizio per imparare a vivere l’eutrapelia nella vita comunitaria, cioè il tempo della ricreazione, come esigenza di una vita fatta soprattutto di raccoglimento e di rapporti molto circoscritti. Così ci sembra di poter concludere che, se ci sono dei santi che hanno eccelso particolarmente in questa virtù, come per esempio San Tommaso Moro, San Filippo Neri, il già citato Francesco di Sales, e don Giovanni Bosco, certamente Santa Teresa d’Avila fa parte pienamente della loro categoria e invita noi suoi figli a imitarla.