di P. Ermanno Barucco ocd
Tutti i gesti umani di Gesù hanno anche un significato divino, un senso spirituale presente nella realtà del gesto e nelle parole della Scrittura che ce lo comunica. In questi giorni della Passione di Gesù mi sono chiesto qual è il senso umano e divino del gesto di Gesù di bere l’aceto che gli porgono mentre è inchiodato sulla croce.
Un particolare riferito da tutti gli evangelisti con sfumature diverse, dando l’impressione che nel medesimo gesto si intreccino più significati percepiti dai diversi autori sacri grazie all’ispirazione dello Spirito Santo. Si tratta quindi di riflessi di una stessa luce dagli accenti cromatici variati per comporre un quadro di squisita bellezza. Ascoltiamo e vediamo quindi le quattro versioni evangeliche del gesto:
Dal vangelo secondo Giovanni:
«28Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: “Ho sete”. 29Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. 30Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: “È compiuto!”. E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,28-30).
Dal vangelo secondo Matteo:
«45A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. 46Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. 47Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Costui chiama Elia”. 48E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. 49Gli altri dicevano: “Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!”. 50Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito» (Mt 27,45-50).
Dal vangelo secondo Marco:
«33Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. 34Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. 35Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: “Ecco, chiama Elia!”. 36Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: “Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere”. 37Ma Gesù, dando un forte grido, spirò» (Mc 15,33-37).
Dal vangelo secondo Luca:
«35Il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: “Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto”. 36Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto 37e dicevano: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. 38Sopra di lui c’era anche una scritta: “Costui è il re dei Giudei”» (Lc 23,35-38).
La matrice del gesto di dare da bere l’aceto è particolarmente presente in un testo dell’antico testamento, il Salmo 69,22 («22 Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto») che non tutti gli evangelisti evocano con la stessa intensità: più forte in Giovanni, accennato in Marco e Matteo, assai sfumato in Luca.
Il gesto dell’aceto non va confuso con l’altro simile dell’offerta a Gesù di vino mescolato con fiele (cf. Mc 15,23; Mt 27,34), che era una bevanda data ai condannati a morte prima della crocifissione come anestetico perché sentissero meno lo strazio della sofferenza sulla croce. L’aceto è una bevanda dissetante e non serve per procurare tortura allo stomaco e neppure per calmare dolori. I due gesti sono diversi: Gesù rifiuta una pozione con fiele che gli impedisca di essere cosciente e di soffrire coscientemente, perché accetta coscientemente la sofferenza come offerta di sé per amore; mentre accoglie l’aceto per dissetarsi.
Il senso “umano” dell’aceto
Innanzitutto il termine greco che indica “aceto” significa letteralmente “sapore aspro, forte, acido” e quindi indica il vino acidulo o di scarso valore, o anche aceto con aggiunta di acqua, bevanda usata al tempo di Gesù da soldati e lavoratori per dissetarsi e rinfrescarsi dall’arsura. In effetti secondo i vangeli l’aceto, in un vaso, è presente presso la croce perché ci sono i soldati incaricati di crocifiggere Gesù. E questi soldati, a seconda degli evangelisti, vivono diversi atteggiamenti che fanno emergere il senso “umano” dell’aceto:
- Per Luca, i soldati deridono Gesù non solo a parole ma anche porgendogli l’aceto come scherno, offrendo a colui che si crede il Messia Re una bevanda popolare di scarso valore (così accenna Luca al senso del Salmo 69,22).
- Per Marco e Matteo, i soldati (o meglio, letteralmente, “alcuni dei presenti”) vogliono compiere un gesto pietoso e umanitario, forse per calmare la febbre traumatica prodotta dalle trafitture dei chiodi e dai dolori lancinanti causati dal peso del corpo pendente. Ma anche qui è presente un leggero senso di ironia da parte dei soldati, che interpretano il grido ebraico “Elì, Elì [Eloì, Eloì]” non come l’invocazione “mio Dio, mio Dio”, ma come il nome proprio di Elia. Quindi pensano che quest’uomo disperato sulla croce invochi il profeta Elia perché venga a salvarlo, a farlo scendere dalla croce, e dicono, sarcasticamente, di aspettare per vedere se Elia arrivi, sapendo bene che non verrà nessuno. Essi quindi sembrano prendersi gioco delle allucinazioni visionarie di quel moribondo in croce che si credeva il messia salvatore e che invece non si salva da solo e non è salvato da nessuno. Ma comunque cercano di alleviarne la sete e di consolarlo con un po’ di aceto rinfrescante e dissetante.
- Per Giovanni, i soldati che eseguono la condanna a morte di Gesù sulla croce sono coloro che stanno agendo per il compimento della Scrittura in diversi aspetti e anche per quanto riguarda l’aceto. In questo caso proprio Gesù dice “Ho sete”, altra espressione ripresa dal Salmo 69,22, e dopo aver ricevuto l’aceto aggiunge “è compiuto”. Si suppone dal testo che l’aceto sia porto dai soldati che però nel caso di questo vangelo non esprimono un atteggiamento particolare, sembrano dei semplici “servitori” che eseguono, come quelli alle nozze di Cana (Gv 2,1-11), operando in risposta, compassionevole certo, al bisogno che Gesù esprime dicendo che ha sete.
Di solito si rappresenta artisticamente la canna usata per dare da bere a Gesù come un lungo bastone in cima al quale è infilzata la spugna accostata alla bocca di Gesù perché possa bere appoggiandovi le labbra. Questa è una possibilità, ma ce n’è un’altra. Per Marco e Matteo la canna usata per raggiungere la bocca di Gesù è di calamo, cioè di canne sottili di giunchi di palude. Per Giovanni si tratta di issopo, una pianta aromatica con steli corti e fini usata per la purificazione nei riti ebraici (si potrebbe pensare ad un altro riferimento analogamente alle giare per la purificazione alle nozze di Cana). Se si tratta di canne sottili e non troppo resistenti, possiamo supporre allora, come fa il pittore James (Jacques-Joseph) Tissot nel suo quadro “Ho sete (I thirst)” (opera del 1886-1894, conservata al Brooklyn Museum di New York), che la spugna non fosse posta in cima ad una canna usata come asta, ma che pezzi di steli di issopo o di calamo fossero congiunti a formare una lunga cannuccia (di sei piedi circa, quasi due metri) e che il soldato romano premendo con la sua mano la spugna imbevuta di aceto da una parte della cannuccia spingesse l’aceto fino a raggiungere l’altra estremità posta nella bocca di Gesù dissetandolo con fiotti di bevanda.
Il senso “umano-divino” dell’aceto
Il senso “umano” dell’aceto è gravido di un senso “divino” che può essere compreso a partire dalla fede nel mistero di Dio e nell’incarnazione nella quale l’umano diventa manifestazione della gloria del divino.
Un primo aspetto del significato umano-divino dell’aceto è il compimento della lettera della Scrittura, del Salmo 69,22, e secondo il vangelo di Giovanni riguarda anche tutta la vita di Gesù Cristo con l’ultimo: “è compiuto”.
Inoltre poiché il tema del dare da bere e dell’aver sete è caratterizzato nel vangelo di Giovanni fin dall’episodio della Samaritana (Gv 4,4-42) e dai precedenti riferimenti veterotestamentari (cf. Gen 24; 29; Es 2) come un gesto sponsale, potremmo dire che per l’amore per l’umanità sua sposa Gesù accoglie l’umiliazione di bere un vino acidulo e di scarso valore (Sal 69,22) per compiere la volontà del Padre nell’estremo annientamento della propria vita, mentre gli uomini lo vedono provato dalla sete, distrutto dal dolore, sconvolto dalla disperazione e da allucinazioni, angosciato dalla solitudine e dall’abbandono.
Gesù accoglie di essere il Messia umiliato nel ricevere una bevanda di scarso valore come l’aceto diluito con acqua ma per fare la volontà del Padre nel compiere la Scrittura, apparendo come il Re dei Giudei che muore disperato e abbandonato da tutti e in particolare dal Padre. Tuttavia nel morire egli si affida totalmente alla volontà del Padre con un grido che dice l’estremo abbandono del Padre ma anche l’estrema fiducia di Gesù nell’affidarsi al Padre, perché Gesù crede che il Padre lo assiste non col farlo scendere dalla croce, come pensano gli astanti, ma facendogli compiere la morte in croce in quel modo, manifestando così di essere il «Figlio di Dio», «il Giusto», come riconoscono alcuni.
L’aceto è anche simbolo della nostra miseria, della nostra incapacità di amare pienamente (vino) e di amare liberamente (acqua), quindi il nostro amore è mescolanza di incapacità di amare e di possessione affettiva non libera! Gesù beve questo amore acido, aspro, per farlo suo e redimerlo con l’amore che Dio Padre manifesta offrendo suo Figlio sulla croce. La nostra miseria e il nostro misero amore Gesù lo beve, lo assaggia fino in fondo e ne sente l’asprezza, non lo rifiuta. Anzi, accettandolo lo unisce con l’amore pieno e libero che egli esprime nell’offrirsi per noi al Padre e alla sua volontà, prendendo il calice della Passione.
In questo modo Gesù beve aceto di umiliazione per trasformarlo grazie alla sua morte e resurrezione in gesto profetico di compimento: «chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11; 18,14; Mt 23,12), e Gesù umiliato nella morte è stato esaltato nella gloria della resurrezione (cf. Fil 2,8-9). E noi con lui, in lui, in un mirabile scambio, ogni volta che facciamo un gesto di compassione, rappresentato simbolicamente qui dal dare da bere ad un assetato: «l’avete fatto a me» (Mt 25,40), percepiamo l’unità dell’amore umano-divino che Cristo ha realizzato: «amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato» (Gv 13,34).