di P. Antonio Maria Sicari ocd
Giovanni della Croce, accusato dai suoi confratelli di “ribellione” perché assecondava l’opera riformatrice di Teresa d’Avila, fu gettato in un angusto carcere conventuale all’inizio dell’avvento del 1577. Si trovò così a vivere il tempo d’Avvento e la preparazione al Natale, privo di ogni conforto e dolcezza, affidandosi ad una fede nuda, privo com’era perfino dei sacramenti.
Ciò che solamente gli restava – per lunga consuetudine, riflessa nel Breviario che unicamente gli venne lasciato – era la meditazione della Parola di Dio: l’annuncio solenne e gioioso del Prologo del Vangelo di Giovanni (“In Principio era il Verbo... e il Verbo si è fatto carne”) e i racconti riportati nei Vangeli dell’Infanzia.
Ma in quel carcere cominciò ad accadere quel miracolo di “morte e resurrezione” che riguardò non soltanto l’io interiore e spirituale di Giovanni della Croce, ma anche – se ci si passa l’espressione – il suo “io poetico”: lo Spirito trasse dalla “carne” sofferente del Santo un suono atto a far riecheggiare nuovamente, con particolare bellezza, la parola biblica.
Fu durante quei nove mesi di prigionia, infatti, che gli venne data la grazia – quasi l’Ispirazione – per comporre il suo capolavoro poetico: quel Cantico espiritual che è un commento poetico ed ecclesiale – quasi una ri-Scrittura – del biblico Cantico dei Cantici. Tuttavia, prima di comporlo, fra Giovanni si preparò con una lunga meditazione trinitaria, cantata in “9 Romances” .
Seguì poi un’ulteriore tappa intermedia segnata dalle strofe intitolate Que bien se yo la fonte in cui il prigioniero si diceva raggiunto dalla freschezza dissetante della Rivelazione trinitaria ed eucaristica, nonostante che la notte lo avvolgesse da ogni lato.E fu in quella stessa prigione che Giovanni della Croce compose anche un’ultima “romanza”, per commentare il Salmo Super flumina Babylonis quasi per tracciare la conclusione del suo itinerario d’amore nell’oscurità, prima di tentare la fuga saltando dalla finestrella della prigione. Fu così che il mistico spagnolo si aggregò a quel popolo di esiliati che di secolo in secolo continua a sognare il “ritorno a Gerusalemme”, ma sapendo che esso dovrà essere di necessità un “ritorno a Cristo”.
Offriamo qui, anzitutto, il testo in lingua originale e la nostra traduzione poetica, che tenta di coniugare – in quanto possibile – fedeltà al testo originale e bellezza:
ROMANCE X «Super flumina babylonis» Encima de las corrientes que en Babilonia hallaba, allí me senté llorando, allí la tierra regaba,
acordándome de ti, ¡oh, Sión!, a quien amaba. Era dulce tu memoria, y con ella más lloraba.
Dejé los trajes de fiesta, los de trabajo tomaba, y colgué en los verdes sauces la música que llevaba,
poniéndola en esperanza de aquello que en ti esperaba. Allí me hirió el amor y el corazón me sacaba.
Díjele que me matase, pues de tal suerte llagaba; yo me metía en su fuego sabiendo que me abrasaba,
disculpando al avecica que en el fuego se acababa. Estábame en mí muriendo y en ti solo respiraba,
en mí por ti me moría y por ti resucitaba, que la memoria de ti daba vida y la quitaba.
Gozábanse los extraños entre quien cautivo estaba; preguntábanme cantares de lo que en Sión cantaba:
«Canta de Sión un himno, veamos cómo sonaba». «Decid: ¿cómo en tierra ajena, donde por Sión lloraba,
cantaré yo la alegría que en Sión se me quedaba? Echaríala en olvido si en la ajena me gozaba.
Con mi paladar se junte la lengua con que hablaba, si de ti yo me olvidare, en la tierra do moraba.
¡Sión, por los verdes ramos que Babilonia me daba, de mí se olvide mi diestra, que es lo que en ti más amaba,
si de ti no me acordare, en lo que más me gozaba, y si yo tuviere fiesta y sin ti la festejaba!
¡Oh, hija de Babilonia, mísera y desventurada! Bienaventurado era aquel en quien confiaba,
que te ha de dar el castigo que de tu mano llevaba, y juntará sus pequeños, y a mí, porque en ti lloraba,
a la piedra, que era Cristo, por el cual yo te dejaba». Debetur soli gloria vera Deo. |
DECIMA ROMANZA X Dal salmo «Super flumina Babylonis» Lungo le rive dei fiumi che in Babilonia trovavo, là mi sedetti piangendo e il suolo di pianto bagnavo,
di te rammentandomi, o Sion, di te che io amavo tanto. Era dolce la tua memora, e ancor più gemevo in pianto.
Lasciati i vestiti da festa, quei da fatica indossavo, e appesi ai salici verdi i canti che dentro portavo,
affidandoli alla speranza che solo in te s’appoggiava. Là mi trafisse l’amore e il cuore mi si spezzava.
Gli dissi che mi uccidesse, giacché così tanto piagava; entravo nella sua fiamma sapendo che mi incendiava;
comprendendo la fenice che nel fuoco si gettava. Là me ne stavo morendo e in te solo io respirava.
Per te, in me stesso, spiravo e per te risuscitavo, perché al tuo solo ricordo la vita perdevo e trovavo.
Gioivano quegli stranieri tra i quali ero ormai schiavo e mi chiedevano canti di quelli che in patria intonavo:
«Cantaci un inno di Sion, sentiamo come si eleva!» «Ma come in terra straniera con l’anima che mi piangeva
per Sion, potevo cantare la gioia in patria lasciata? Ne avrei distrutto il ricordo se altrove l’avessi cercata.
Al mio palato s’attacchi la lingua con cui parlavo, se mai scordato ti avessi, nella terra dove abitavo.
O Sion, per gli alberi verdi che a Babilonia guardavo, si scordi di me la mia mano – è quanto di meglio in te amavo! –
se io di te mi scordassi – di ciò che in te più gustavo – e se qualche festa trovassi che senza di te festeggiavo.
O figlia di Babilonia, o misera e sventurata! Quegli in cui ho confidato gode una Vita Beata!
Lui deve darti il castigo che da sola ti sei preparato: Egli unirà i tuoi bambini, – ed anche il mio cuore straziato –
a quella pietra che è Cristo per il quale t’ho abbandonato». Soltanto a Dio si deve la vera Gloria. |
E’ una composizione che in alcune edizioni viene considerata come Decima Romanza e ha evidenti origini nella preghiera del Breviario e nella particolare risonanza che il salmo 137 (il Super flumina Babylonis) aveva nell’animo del prigioniero: anch’egli era un esiliato che cercava di non dimenticare la sua terra “carmelitana”, e cantava non per gli oppressori, ma per narrare la sua pena e la sua fedeltà.
Questo Salmo 137 – nella tradizione spirituale, letteraria e musicale della Chiesa – è sempre stato vissuto come il canto-preghiera di chi anela alla patria e sente tutta l’estraneità di un mondo che lo sollecita, ma non giunge più a toccargli il cuore: il cuore è tutto nel desiderio di poter tornare là dove soltanto è il riposo e la festa[1].
A chi ricorda il Salmo 137[2], non sarà difficile cogliere la stretta fedeltà della composizione di Giovanni della Croce al testo biblico: esso è interamente ripreso, ma anche reinventato.
Nella sua “versione poetica”, il Santo apporta alcuni ritocchi e aggiunte descrittive, che abbelliscono la scena evocata. Ad esempio, si rilegga la conclusione della seconda strofa e l’inizio della terza: «Era dolce la tua memoria, / e ancor più gemevo in pianto. / Lasciati i vestiti da festa, / quei da fatica indossavo».
Un altro ritocco è quello della «musica appesa ai salici verdi», come se fosse tutta aggrappata alla speranza. Ma più importante e decisivo è il processo di personalizzazione dell’intero Salmo, annunciato fin dall’inizio per il fatto che il poeta sostituisce il suo «io» al noi collettivo: un «io» personalissimo che domina singolarmente l’intera scena.
Ciò gli permette di innestare nel cuore dell’antica composizione un blocco nuovo di versi brucianti (dal verso 15 al 28)[3], dove s’impone con forza il grido di un «io» innamorato:
«... Là mi trafisse l’amore / e il cuore mi si spezzava. // Gli dissi che mi uccidesse, / giacché così tanto piagava; / entravo nella sua fiamma / sapendo che mi incendiava. // Comprendendo la fenice / che nel fuoco si gettava; / là me ne stavo morendo / e in te solo io respirava. // Per te, in me stesso, spiravo / e per te risuscitavo, / perché al tuo solo ricordo / la vita perdevo e trovavo.… ».
Con questo innesto, il Salmo dell’esiliato si tramuta nel Salmo del mistico che muore di non morire e comincia ad esperimentare il misterioso compenetrarsi della vita e della morte: quell’abbraccio, in cui egli può dire: “Vivo, non io ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) che muta significato ai verbi fondamentali dell’esistenza. Il riferimento alla mitica fenice – che fin dall’antichità cristiana è simbolo di Cristo che muore e risorge – è dunque centrale.
Giovanni della Croce ne riprenderà il simbolismo in seguito, in un momento decisivo, proprio quando inizierà a commentare il suo Cantico Spirituale. Scriverà allora:
«(Le ferite d’amore) accendono tanto in affetto la volontà, da fare in modo che l’anima bruci in un fuoco ed in fiamme d’amore, talché le sembra di consumarsi in quella fiamma, la quale la fa uscire fuori di sé, e rinnovare tutta e passare a un nuovo modo di essere, simile alla fenice che brucia e rinasce di nuovo»[4].
Quello del “morire di non morire” è un tema che Giovanni aveva già cantato poeticamente, come molti altri in quel tempo[5]: ma si era trattato solo di un desiderio e di una preghiera, che ora – nel carcere – diventano un accadimento: un fuoco bruciante, una morte in atto, una risurrezione iniziata. Quando aveva cantato di “morire di non morire” – benché egli fosse allora libero nel suo tranquillo conventino – l’aveva fatto perché si sentiva “irretito in un forte laccio”.
Ora – benché prigioniero – egli canta perché comincia ad esperimentare la liberazione. Allora egli chiudeva il suo canto con l’attesa di poter gridare il suo desiderio con più grande verità: «Oh mi Dios! cuando serà / cuando yo diga de vero: / “vivo ya porque no muero”?» - «Quando potrò ripeterti / davvero, o Dio che adoro: / “vivo e già più non moro”?».
Ora egli può cantare quel che veramente gli sta accadendo. Ma dove la ri-Scrittura del Salmo raggiunge la sua più ardita innovazione è nella conclusione cristologica a cui Giovanni lo piega. L’antico Salmista, al ricordo amaro di Babilonia devastatrice, concludeva con una terribile maledizione, augurandosi l’avvento di un vendicatore: qualcuno che avrebbe “afferrato i tuoi figli e sfracellato i tuoi lattanti sulla pietra”.
Ma nel cuore di Giovanni l’esilio è ormai solo una fiamma cristologica in cui Dio vuole bruciarlo: non ci sono più nemici di cui vendicarsi, ma solo un Dio “che fa morire e fa vivere”. Così le parole terribili del Salmista si trasfigurano in una strana e gloriosa benedizione:
« O figlia di Babilonia, / misera e sventurata! // Quello in cui ho confidato / gode una Vita Beata! / Lui deve darti il castigo / che da sola ti sei preparato: / Egli unirà i tuoi bambini, / – ed anche il mio cuore straziato – / a quella pietra che è Cristo / per il quale t’ho abbandonato».
Secondo Hans Urs von Balthasar, proprio per questi ultimi versi, la romanza Super flumina Babylonis è «la poesia più audace che Giovanni abbia scritto... Babilonia, l’infelice, deve sfracellarsi con i suoi figli alla roccia che è Cristo: questo è tutto intero il canto che si può cantare sulle sventure di Sion. Ma la vendetta del cantore, il castigo che egli augura alla sua persecutrice, è la vendetta dell’eterno amore; e lo stesso cantore la vuole patire assieme, è anzi già in mezzo al patire, perché è uno sfracellato...».[6]
Se è giusto anche qui interrogarsi sui legami che la composizione poetica certamente ebbe con l’evoluzione dell’esperienza di Giovanni della Croce nel carcere, possiamo pensare che questa romanza si collochi verso la fine della prigionia, quando la sofferenza dell’esilio era cresciuta fino allo struggimento, ma era già maturata come “ferita d’amore”, come un volontario “gettarsi nel fuoco”, per subire il miracolo della morte e della risurrezione.
E forse l’idea conclusiva di “sfracellarsi sulla roccia che è Cristo” non fu estranea all’idea che egli già elaborava di fuggire, tentando il salto nel buio sugli spalti rocciosi del Tago, quando il rischio – così pericoloso e totale – sarebbe stato anch’esso un modo di aderire alla roccia della fede. Così l’esule ha sì levato il suo canto in terra straniera, ma non per rallegrare “quel popol straniero / del quale ero là prigioniero”, ma per narrare la ricerca dell’anima-Sposa, e il suo incontro festante con lo Sposo.
Ha cantato la sua passione per Gerusalemme, ma sentendo d’essere egli stesso la città santa di Dio. La Sposa del Cantico – che Giovanni celebrerà poi nel suo Cantico – non sarà soltanto l’anima innamorata, né soltanto la Chiesa-Sposa, ma sarà anzitutto l’intera realtà creata che il Padre ha donato al Figlio, nello Spirito Santo. La stessa trasposizione era già accaduta in tutte le nove romanze trinitarie, ed è evidente anche nella romanza dell’esilio che abbiamo appena commentato.
Solo in questa ambientazione trovano il loro vero significato le vicende personali di Giovanni della Croce, che sono attuazioni delle vicende della Creazione-Sposa-Chiesa, sempre chiamata ad assumere atteggiamenti degni della sua patria trinitaria.
Note:
[1] Nella letteratura spagnola del tempo si trovano altri poeti che ricorrono allo stesso Salmo, come si può vedere nel Corpus de antigua lirica popular hispanica (sec. XV-XVII). Citato da J. D. Gaitan, Teologia poetica de S. Juan de la Cruz, in Rev. de Espir., 1990, pp. 420ss.
[2] Per rendere più agevole il riferimento riportiamo qui la quasi totalità del Salmo biblico: «Sui fiumi di Babilonia / là sedevamo piangendo / al ricordarci di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre. / Là ci chiedevano canti di gioia / coloro che ci avevano deportato, / canzoni di gioia (chiedevano) i nostri oppressori. / Ma come potevamo noi cantare / i canti del Signore in terra straniera? / Se ti dimentico, o Gerusalemme / si paralizzi la mia destra. / Mi si attacchi la lingua al palato / se lascio cadere il tuo ricordo, / se non metto Gerusalemme / al di sopra di ogni mia gioia...».
[3] In un’altra redazione, dopo il verso 28 (prima di: “Gioivano quegli stranieri”) sono aggiunti questi altri quattro versi: “Moriame por morirme / y mi vida me mataba / porque ella perseverando / de tu vista me privaba” - “Morivo io già di morire / e la vita mi uccideva / perché essa continuando / la tua vista mi toglieva”
[5] Si tratta della “glossa” Vivo sin vivir en mi” in cui Giovanni della Croce (come già Teresa d’Avila ed altri poeti del tempo) aveva cantato: “muero porqué no muero”; paradosso del mistico che “non sa vivere” senza Dio e – sentendosene privo – ha la sensazione di dovere “vivere senza vivere”.