di P. Ermanno Barucco ocd
Un dipinto come “San Giorgio e il drago” di Paolo Uccello ci parla immediatamente e per questo ci forza a uccidere insieme con lui il drago che è nascosto in una caverna del nostro mondo interiore e profondo per poter vivere le relazioni personali e sociali con gli altri senza violenza ma con gentilezza e tenerezza. Preferisco partire subito da questa interpretazione socio-relazionale e psicologica della scena simbolica perché è quella che mi ha suscitato di slancio il dipinto. L’ho visto recentemente a Venezia, per qualche mese in esposizione alla Galleria di Palazzo Cini a San Vio, proveniente dal Museo Jacquemart-André di Parigi, una delle tre versioni conosciute di “San Giorgio e il Drago” dell’artista attivo a Firenze nel XV secolo (le altre due si trovano una a Melbourne e, la più famosa, alla National Gallery di Londra).
La scena principale: la grazia e la lotta
La scena principale del dipinto si compone di san Giorgio che trafigge con la sua lancia il drago al collo trapassandogli le fauci aperte. È un colpo mortale. Nella scena in primo piano si trova però anche la fanciulla che era stata destinata al sacrificio per placare la collera del drago in modo da salvare la città dal mostro. La fanciulla è in atteggiamento di preghiera e il fatto che San Giorgio sia rivestito di un mantello bianco con la croce rossa, suo simbolo tipico (passato poi ad essere simbolo dell’Inghilterra della quale il Santo è patrono), significa che è rivestito di Cristo che con il sangue (rosso) sparso sulla croce ha vinto il male e la morte. È in virtù della grazia di Cristo invocata dalla donna in preghiera che San Giorgio sconfigge il drago in una epica lotta. Il Santo si è candidato a sconfiggere il drago per salvare la fanciulla e la città, per salvare le relazioni personali e sociali. La scena principale appare come immagine immediata e artistica del “combattimento spirituale”, della negazione di sé, del far morire il proprio io, per uccidere l’uomo vecchio che in noi si oppone con violenza e resistenza a che nasca l’uomo nuovo in Cristo.
Il fatto che l’artista abbia posto il drago tra la fanciulla e Giorgio ci suggerisce una serie di letture allegoriche particolari, su diversi piani psicologici, legate tutte però all’ambiente in cui è nata l’opera che è quello nunziale, forse proprio per la camera da letto di due sposi. La prima lettura che intravediamo è l’imperativo che occorra sconfiggere ciò che divide gli sposi, l’uomo e la donna che si amano, cioè occorre sconfiggere il drago che cerca di dividerli (e infatti il drago è stato posto scenograficamente tra i due, proprio per dividerli). La seconda lettura pone un altro imperativo: occorre uccidere il drago che l’uomo maschio porta in sé (il machismo e la violenza) per poter vivere l’amore cortese, il “dolce stil novo” dell’amore, l’amore cavalleresco di cui San Giorgio diventa simbolo, l’amore “gentile”. La terza lettura è contemporanea (ma anche antica) ed è il terzo imperativo: occorre vincere la violenza del femminicidio educando gli uomini a uccidere il drago della violenza che alberga in loro, come il drago, nel quadro di Paolo uccello, albergava nella grotta che è proprio dietro a San Giorgio. Quando ancora non si ama in pienezza e totalmente, nelle profondità recondite del cuore umano possono albergare passioni disordinate di possesso e la violenza. Psicanaliticamente si potrebbe intravedere nell’immagine di San Giorgio che trafigge con la lancia il drago la dinamica che occorre uccidere la penetrazione operata dalla violenza sessuale perché si trasformi nella penetrazione dell’unione sessuale amorosa, consensuale e sponsale: questo cambiamento è associato nel Medioevo anche con la rappresentazione dell’incontro tra la donna e il mitico unicorno (evocato dal cavallo bianco del cavaliere San Giorgio e dalla lancia). Uccidere il drago però non basta, occorre coltivare in sé l’umano, l’essere maschio umanamente vero. Di questo tratta, a nostro modo di vedere, il secondo piano dell’opera.
Il secondo piano: la spontaneità e la coltivazione
Dietro san Giorgio c’è il paesaggio spontaneo e naturale: il bosco, i campi suddivisi ma non coltivati, le montagne. Si allude all’amore spontaneo che è giusto se è educato al dono di sé e canalizzato verso il rispetto dell’altro, altrimenti rischia di trasformarsi, nei recessi della grotta del drago, nell’io possessivo che poi, poiché non formato alla calma, esce violento dalla grotta dove si era nascosto dietro l’apparenza di un uomo innamorato e affabile.
Dietro la donna in preghiera, l’amata, c’è un terreno coltivato, un orto o giardino. La donna e la sua vera femminilità, come pure la sua preghiera, ha un ruolo importante per condurre l’uomo a coltivare l’umano del suo essere uomo maschio (nel giusto senso). Infatti il giardino coltivato si espande dietro alla grotta e al drago trafitto e sconfitto, dietro alla donna in preghiera, come se l’orto portasse frutto a causa dell’uccisione del drago da parte dell’uomo poiché è rivestito di Cristo (il mantello con la croce) e grazie alla preghiera della donna che non si affida alle proprie forze, capacità e bellezza ma a Dio. In questo ambiente cristiano e divino si realizza pienamente l’amore dell’uomo per la donna e viceversa, si coltiva la loro, reciproca, mascolinità per la femminilità e femminilità per la mascolinità (anche la donna deve coltivare il suo giardino interiore per dare significato vero alla sua bellezza e femminilità nell’amore sponsale). Per questa grazia divina la coltivazione piena dell’umano in entrambi, e diversamente per l’uomo e per la donna, può accadere. Questa coltivazione personale e relazionale del proprio umano ha anche un riflesso sociale.
Il paesaggio all’orizzonte: il viale e la città
Dalla scena principale parte un viale che raggiunge la porta della città sullo sfondo, perché non è sufficiente ristabilire il giusto rapporto tra uomo e donna coltivando la loro umanità, occorre compiere insieme un cammino, occorre farlo in una prospettiva sociale. In questa prospettiva la stessa società civile, la civitas, la città sullo sfondo, è chiamata a sperare nella morte del drago e a pregare per questo, come fanno i tre piccoli personaggi in fondo al viale alla porta della città. Siamo tutti in cammino per uccidere la violenza del drago in noi, per coltivare l’umano nel giardino del cuore, per aprirci alla vita sociale riconciliata e per vivere la pace nella città. Questa pace ha diversi livelli che sono legati e simbolizzati nel dipinto: pace interiore, relazionale, sociale, civile e anche mondiale, tanto che l’uccisione del drago potrebbe anche simboleggiare la rinuncia decisa alla violenza della guerra per cercare la pace tra gruppi, popoli e nazioni.
L’amore uomo-donna, ordinato e coltivato, abita la città, la società, e dona pure il suo contributo ad essa e come contraccambio dovrebbe ricevere (non sempre è così) solidità nell’amore e sicurezza contro il male, come evocano le belle mura bianche della città. Le montagne di sfondo a destra, illuminate dalla luce boreale della luna, fanno di nuovo da contraltare simbolico questa volta alla città dalle bella mura splendenti di luce. Ambiente naturale spontaneo e ambiente umano costruito non si contrappongono ma continuamente si richiamano e si completano nella complementarietà reciproca, come è per l’eros con l’agape, per l’uomo con la donna, per il corporale con lo spirituale, per l’individuo con la comunità, per una nazione con le altre nel mondo. Tutto ciò accade pienamente quando il cuore dell’uomo, la relazione amorosa, la vita sociale e politica hanno come orizzonte finale una dimensione trascendente celeste, spirituale e divina.
Lo sfondo: il cielo blu scuro e la luce nelle notte
La suddivisione tra personaggi o paesaggi diversi dei primi tre piani del dipinto, si apre su uno sfondo invece unitario: il cielo, e forse un cielo stellato, rimando al desiderio umano (de sidera: a proposito delle stelle) e al desiderio di infinito che abita il cuore dell’uomo. È questo desiderio infinito che spalanca e dilata le oscure caverne dei nostri sensi, come scrive poeticamente san Giovanni della Croce, caverne illuminate grazie all’infinito divino che le abita per farci crescere in umanità. Questo rapporto con Dio così intimo e profondo arriva a liberare le caverne dei sensi dai draghi violenti che cercano di abitarle indebitamente. La profondità del cuore umano è un cielo stellato, una profondità libera da mostri e riempita di stelle con la loro luce, piccola ma pur sempre, nel cielo buio, luce nella notte, possibilità di avanzare senza inciampare, indicazione nella direzione di un cammino, meta del nostro desiderio di piena umanità. Tutto diventa eco di Dio che dona la pace: in se stessi, nell’amore uomo-donna, nel rapporto con gli altri, nella vita sociale, nelle relazioni internazionali.