SAN RAFFAELE DI SAN GIUSEPPE
(JOSEF KALINOWSKI)
1835 - 1907
Memoria, 19 novembre
Contesto storico
Quando Giuseppe (Josef) Kalinowski nel 1835 viene al mondo – a Vilna (oggi Vilnius), da un'antica e nobile famiglia polacca – la Polonia da circa quarant'anni non esiste più sulla carta geografica; i potenti di turno se la sono spartita: l'82% alla Russia, il 10% all'Austria e l'8% alla Prussia; e così sarà fino al 1918, quando nuove e ancor più gravi sventure si andranno già profilando all'orizzonte. In quegli anni la russificazione procede spietata, a marce forzate: gli zar sanno che per distruggere e asservire il popolo polacco, oltre alla forza militare e al dissanguamento economico, bisogna espropriarlo della sua cultura e della sua fede.
L'nfanzia e gli studi giovanili
Alla nascita di Giuseppe Kalinowski, sono passati appena cinque anni dalla cosiddetta "Insurrezione di Novembre" durata dieci mesi; e ancora il bambino poteva vederne le tragiche conseguenze: continue deportazioni, esecuzioni capitali sulla piazza del mercato. Il piccolo Giuseppe assorbiva la fede e alimentava la sua appartenenza "cattolica" nel santuario nazionale di Ostra Brama, edificato sulla porta dell'antica città: l'immagine della Madre della Misericordia lo accompagnerà per tutta la vita. Ma un ideale profondo e determinante il piccolo Kalinowski lo assorbiva soprattutto nella Cattedrale della SS. Trinità, sulle tombe dei martiri per l'unità delle Chiese orientali con Roma.
A otto anni Giuseppe poté frequentare l'Istituto dei Nobili, un collegio nel quale il papà era insegnante di matematica: vi restò fino ai sedici anni, concludendo brillantemente il primo ciclo di formazione, rifiutandosi comunque «con orrore» di imparare quel «catechismo sullo Zar» che i russi volevano imporre. Aggiunse poi un biennio di agronomia. E qui la ferita si aprì: per un nobile polacco-lituano non c'era aperta altra strada che quella di frequentare qualche università russa, collaborando così alla propria russificazione. Giuseppe aveva una spiccata inclinazione per la matematica e finì – dopo qualche tentennamento – alla Scuola di Ingegneria di San Pietroburgo. intelligente, riservato, brillante negli studi e perfino benvoluto, al termine dei tre anni era già Tenente ingegnere e Assistente di matematica nella stessa Accademia. Ma s'era trovato anche immerso fino al collo in un ambiente saturo di indifferentismo religioso e di positivismo scientista, e la fede cominciava a vacillare. Tanto più che egli si portava in cuore il dubbio d'aver tradito una più seria vocazione.
Confesserà infatti da vecchio: «Considerando ora alcuni elementi importanti della mia vita, avrei dovuto allora (prima di partire per la Russia) chiedere di entrare nel seminario diocesano di Vilnius. E proprio perché non l'ho fatto, molti anni della mia vita, specialmente quelli della giovinezza, si sono frantumati in pezzi divisi tra loro, riuscendo senza profitto per me e per gli altri, convertendosi in vanità». Si sentiva spiritualmente malato. Spiegava con una formula tristissima: «Questa è la mia disgrazia: che cerco lo spirito e trovo sempre la materia».
Gli accadde in quel periodo un episodio che certo lo segnò interiormente: entrò in una chiesa cattolica, preso da una voglia improvvisa di confessarsi, ma la trovo deserta; s'inginocchiò al confessionale, ma non c'era nessun prete ad ascoltarlo. Allora cominciò a piangere, e si sentì invadere da una indicibile nostalgia. Forse l'episodio spiega perché, più tardi, da vecchio sacerdote, anche se infermo e stanchissimo, non avrà mai cuore di lasciar vuoto il suo confessionale.
La riscoperta della vocazione
l'oppressione della sua gente sotto Nel 1855 – avena vent'anni – poté tornare in patria per qualche breve vacanza, rivide il peso della potenza russa, e ciò lo sconvolgeva.
Il primo lavoro che fu affidato al nostro giovane tenente-ingegnere fu la progettazione della ferrovia Kursk-Kiev-Odessa: egli doveva tracciarne il percorso tra il fango e le paludi; ma in quelle distese deserte e interminabili gli riuscì anche – come scrisse – «di lavorare con me stesso e su me stesso». E ritrovò Dio. Un libretto di devozione mariana, capitatogli casualmente tra le mani, finì poi per risvegliare e riscaldare la sua fede di autentico polacco.
I lavori per la ferrovia furono a un certo punto sospesi per mancanza di fondi e così Kalinowski – promosso intanto capitano di stato maggiore – fu assegnato alla fortezza di Brest-Litovski, con l'incarico di sovrintendere alle fortificazioni e alla manutenzione. Questo soggiorno si rivelò determinante per la maturazione della sua più profonda identità, e perfino per il suo più personale carisma (qui cominciarono le riflessioni sulla sua vera vocazione, e anche i suoi primi tentativi di apostolato laicale).
Qui nel 1863 lo raggiunse la notizia della "Insurrezione di Gennaio". In merito racconterà poi nelle "Memorie": «Troppo chiara era la visione interiore della lotta di un popolo disarmato contro la forza del governo russo che disponeva di una enorme e potente armata. Conservare l'uniforme di questo esercito, quando il cuore tremava nell'apprendere le notizie dello spargimento di sangue fraterno sarebbe stato inconcepibile. Mi domandavo: "Mi è permesso rimanere passivo, quando tanti sacrificano tutto per questa causa? "». Kalinowski fece dapprima qualche tentativo di dissuadere gli insorti, e qualcuno lo accusò d'essere un vigliacco e, perfino, una spia dei russi. Rispose: «vedremo chi sarà capace di sacrificarsi». Si mise a disposizione del «Consiglio Nazionale della Insurrezione», e venne nominato Ministro della guerra per la regione di Vilnius. Prima di accettare mise una sola condizione: non avrebbe mai firmato nessuna condanna a morte.
Ma come egli aveva lucidamente previsto, l'insurrezione fu stroncata e decapitata: uno dopo l'altro, traditi, i responsabili cadevano nelle mani della polizia zarista. Seguiva nella repressione un criterio elementare: «polacco e cattolico sono sinonimi nel linguaggio del popolo», per cui bisognava eliminare ogni traccia sia di lingua e di cultura polacca che di istituzioni cattoliche. Il Vescovo di Vilnius fu mandato in esilio e alcuni preti furono impiccati. Poi i conventi furono tramutati in prigioni.
Ai lavori forzati in Siberia
Quando anche Kalinowski fu arrestato, decise di assumersi tutte le responsabilità, pur di non denunciare nessuno. Venne condannato alla pena capitale, e la polizia zarista avrebbe voluto disfarsene in fretta, ma così facendo avrebbero regalato ai polacchi un martire: molti lo ritenevano già un santo. La pena di morte gli fu dunque commutata in dieci anni di lavori forzati, in Siberia, ma gli fecero pagare un prezzo ancora più terribile: il Tribunale militare mise volutamente in giro la voce che l'avevano graziato per ricompensa delle informazioni e delle denunce che il prigioniero aveva rilasciate. Così l'ex Capitano di Stato Maggiore, l'ex Ministro della guerra, col capo rasato e la casacca del prigioniero, con dignità e mansuetudine, cominciò la sua Via Crucis.
Deportato, Kalinowski ripercorse da condannato quelle terre sulle quali, come ufficiale, aveva disegnato il tracciato della ferrovia; poi il viaggio doloroso si spinse fino a Irkutsk, e sempre più lontano fino alle saline di Usolye, presso il lago Bajkal: in tutto circa 8000 Km, percorsi parte su vagoni ferroviari, parte su carri o su barche, parte a piedi. Ci vollero dieci mesi per giungere a destinazione: «le pianure immense sotto e dietro gli Urali – scrisse il condannato – erano diventate un cimitero senza confini per decine di migliaia di vittime strappate dal seno della Madre Patria, e inghiottite per sempre».
In Siberia compì la sua più profonda maturazione interiore. Scriveva: «Il mondo può privarmi di tutto, mi resterà sempre un nascondiglio a lui inaccessibile: la preghiera. In essa si può raccogliere il passato e il presente, e anche il futuro, sotto la forma della speranza... Al di fuori della preghiera, non ho niente da offrire a Dio, posso dunque considerarla come l'unico mio dono. Non posso digiunare, non ho quasi nulla da dare in elemosina, mi mancano le forze per il lavoro; mi resta solo il soffrire e il pregare. Però mai ho avuto tesori più grandi. E non voglio altro». Il tempo che gli restava dopo il lavoro forzato lo dedicava alla preghiera, alla lettura (aveva portato con sé il Vangelo e l'Imitazione di Cristo, ma trovò perfino i poemi tradotti di Dante e Tasso, e gli Esercizi di S. Ignazio di Loyola, e testi di Teologia) e alla carità verso i più deboli compagni di sventura. Significativo è l'episodio di un prigioniero ubriacone, gravemente malato, che non voleva sentir parlare né di Dio né di uomini, e che rifiutava ogni aiuto. Il nostro santo gli stette vicino con tanta delicatezza che costui morendo esclamò: «credevo che si potesse fare a meno di Dio e degli uomini, ma non è così».
La liberazione e l'incontro con il Carmelo
Nel 1874 Giuseppe venne definitivamente liberato, ma il passaporto gli fu restituito con la proibizione di risiedere in Lituania; aveva 39 anni. Per mantenersi, ma anche per passione educativa, accettò l'incarico di precettore del principino Augusto Czartoryski, la cui famiglia risiedeva in esilio, a Parigi, in quell'hotel Lambert in cui i nobili esiliati conducevano una vita dignitosa e austera, quasi monastica. Il principino Augusto era di salute malferma, e questo obbligava il precettore ad accompagnarlo nelle migliori località climatiche d'Europa: maestro e discepolo erano tuttavia ambedue misteriosamente incamminati verso la santità. Si separarono nel 1877; sei anni dopo, Augusto Czartoryski, incontrerà all'Hotel Lambert S. Giovanni Bosco, e in seguito riceverà dalle mani del Santo l'abito di novizio salesiano: morirà giovanissimo, ma così maturo che San Giovanni Paolo II lo proclamerà beato nel 2004.
In Polonia l'Ordine Carmelitano – dopo ripetute soppressioni – sopravviveva in un solo convento e in un solo monastero. Le monache sognavano e pregavano perché sorgesse una guida forte e geniale, a restaurare il Carmelo e, quando conobbero Kalinowski, pensarono d'aver trovato l'uomo giusto. Gli fecero pervenire quegli aforismi in cui Santa Teresa d'Avila ha sintetizzato la sua dottrina: «Niente ti turbi / Niente ti sgomenti / Tutto passa / Dio non cambia / Con la pazienza / Tutto si acquista / Chi possiede Dio / Non manca di nulla». Giuseppe le prese come fonte di ispirazione: «ogni giorno – rispose – prendo forza da queste parole».
Finalmente la chiamata prevalse: «Da un anno mi giungeva come un eco, una voce dalla grata del Carmelo. Questa voce si è adesso rivolta a me chiaramente e l'ho accolta: una voce salvifica mandatami dalla infinita misericordia di Dio. Posso dunque soltanto esclamare: "Canterò in eterno la misericordia del Signore". Oggi considero la voce "al Carmelo!" come voce ispirata da Dio». Così a 42 anni si presentò nel noviziato di Graz in Austria e vi entrò «solo con l'idea di dedicarmi a una vita di penitenza». Vi trovò un Maestro che lo esaudì abbondantemente e non gli risparmiò nulla. Giuseppe – divenuto in convento fra Raffaele di S. Giuseppe – dirà poi che aveva patito meno in dieci anni di Siberia che in un solo anno di noviziato». Ma era entrato con questa risoluzione: «Ora non mi resta che una cosa: sacrificarmi a Lui senza riserve, e non separarmi mai da Gesù Cristo».
Maestro e fondatore
Completò gli studi in Ungheria e ricevette gli ordini sacri in Polonia. Nell'unico convento – l'antico eremo di Czerna – vivevano solo otto vecchi religiosi, di cui quattro stranieri; l'arrivo di Kalinowski segnava dunque un inizio: benché controvoglia egli dovette essere un protagonista: nominato subito Maestro dei novizi, poi Priore, poi Vicario Provinciale. Sotto la sua guida tornò a fiorire la Provincia carmelitana di Polonia che oggi è una delle più numerose dell'Ordine.
Nel 1892 egli aprì un secondo convento a Wadowice, per farne un seminario: in quella stessa cittadina in cui vivevano allora i genitori di San Giovanni Paolo II. L'austero carmelitano distribuiva il suo tempo tra l'educazione dei religiosi e dei seminaristi, la guida spirituale dei monasteri, la cura di nuove fondazioni, il recupero del patrimonio archivistico dell'Ordine, la pubblicazione di testi spirituali. Un po' di esitazione Kalinowski la ebbe quando gli giunse tra le mani la Storia di un Anima, l'autobiografia di una suorina francese (S. Teresa di Lisieux) che stava per sconvolgere il mondo col suo «uragano di gloria» – come si esprimerà Pio XI. Al vecchio e austero religioso, rigoroso educatore di monache, quell'opera parve da principio troppo fragile e infantile, e rifiutò di pubblicarla: poi umilmente intuì che il carisma carmelitano aveva profondità e potenzialità più vaste di quelle che gli erano state trasmesse nei brevissimi anni di formazione. E scrisse a Lisieux un'umile lettera di "riparazione".
Egli era intanto divenuto il padre spirituale del suo popolo: al suo confessionale accorrevano folle sempre più numerose, fin dalle prime ore dell'alba, ed egli vi consumava la vita incurante del freddo e dei disagi sempre più gravi, man mano che la salute si indeboliva. Lo chiamarono «il martire del confessionale» – espressione ripresa da San Giovanni Paolo II nel discorso per la beatificazione. Pregava tanto che qualcuno lo definì anche «preghiera vivente»: «il nostro impegno al Carmelo – spiegava – è la conversazione con Dio in tutte le nostre azioni».
«Che tutti siano una cosa sola!»
Più gli anni passavano più egli sentiva che «gli era impossibile liberarsi dal pensiero dell'unione tra la Chiesa d'Oriente e quella d'Occidente», e «dal desiderio di vedere Mosca convertita». Scrisse a una monaca francese: «Anche se mi sento ormai avviare verso il declino – conto infatti 62 anni – non posso liberarmi dal pensiero che il buon Dio, se gli rimarrò fedele, mi permetterà ancora con la sua grazia di lavorare, tramite il Carmelo di Nostra Signora, per l'unità della Chiesa». «Portare la Russia a Cristo e Cristo alla Russia» era il suo sogno "cattolico", che si estendeva poi a tutti i paesi slavi: e considerò ciò parte essenziale della sua vocazione carmelitana, sulla base di una persuasione teologica e storica assieme: l'unione tra Oriente e Occidente si potrà fare soltanto in Maria, e di ciò il Carmelo deve preoccuparsi per sua intrinseca vocazione. Kalinowski, il carmelitano polacco che indicò la soluzione in Maria, è oggi una guida. Lo ricordiamo sul letto di morte mentre ripete continuamente le parole di Cristo: «Padre, che tutti siano una cosa sola!».
Beatificato da San Giovanni Paolo II a Cracovia il 22 giugno 1983, venne proclamato santo dal Papa polacco il 17 novembre 1991, a Roma.
di P. Antonio Maria Sicari ocd
da Riflessi di Dio - I Santi del Carmelo, EDIZIONI OCD, Roma 2009.