Duemila chilometri più a sud, la dirigente dell’Ufficio immigrazione di Catania ha raccontato di aver accolto una famiglia, fuggita dal Congo, composta da padre, madre e quattro bambini. Niente di strano, si dirà per questi tempi. Lo strano, se così si può dire, stava nel modo in cui i genitori avevano vestito il bambino più piccolo, quello di quattro anni. La fotografia lo ritrae vestito a festa con giacchettina e papillon, perché i genitori gli avevamo detto che quello sarebbe stato il viaggio più importante della sua vita. Il cuore nevralgico di questa immagine non è però nel bel vestitino del bambino, ma nei suoi occhi, nel suo sguardo che la dirigente dell’Ufficio immigrazione ha così descritti: «Negli occhi di questi bambini c’è sempre una luce vivida, di gioia e di felicità».
Le riflessioni
Le due frasi meriterebbero più di qualche riflessione, ma qui per brevità ci limitiamo a qualche rapida considerazione. «Non fatevi ricattare dagli occhi dei bambini». Lo sguardo dell’uomo e, in modo particolare, quello del bambino, è carico di una forza di interrogazione e di sfida, a cui è difficile sottrarsi. Gli occhi di un bambino, forse ancor più di quelli di un adulto, sono una muta domanda che urla più delle sue stesse grida. Questo «potere dei senza potere» (Vaclav Havel), di cui gli occhi sono portatori, avrebbe addirittura il torto di saper «ricattare» chi li incrocia, di saper attrarre a sé, anziché allontanare, di saper impietosire, anziché lasciare indifferenti. In definitiva chi «ricatta» pretende ingiustamente dall’altro, da noi, qualcosa a cui non ha diritto, quindi … .
Negando dignità al volto, agli occhi, dell’altro non stiamo forse annullandolo, privandolo del suo diritto di esistere? Non è un caso se nell’antica Grecia, lo schiavo veniva definito come aprosopos, il «senza volto». Le parole del libro del Siracide sono un salutare ammonimento per tutti: «Signore, padre e Dio della mia vita, non darmi l’arroganza degli occhi» (Sir 23,4). Papa Benedetto XVI lo ha detto senza tanti giri di parole: «Chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio» (Deus caritas est, n. 16). Il futuro di una società che ha paura degli occhi di un bambino, per giunta straniero, è già tremendamente segnato.
«Negli occhi di questi bambini c’è sempre una luce vivida, di gioia e di felicità». Altri occhi di altri bambini, ma per ben altre riflessioni, quasi una risonanza del testo biblico: «Discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore diede loro per pensare» (Sir 17,6).
Per la poliziotta dell’Ufficio immigrazione, gli occhi del bambino appena sbarcato non hanno l’aria di un «ricatto», di una trappola da cui guardarsi; hanno, invece, la forza e il calore della luce, sono l’invito, silenzioso, ad un incontro, ad un abbraccio, tra chi è guardato e chi guarda. Occhi e volto di un bambino e non di una maschera che può sempre essere strappata e gettata via. Indifesi e incapaci di incutere timore, quegli occhi comunicano «luce vivida, gioia e felicità». «Quando si dice che c’è una bella luce, ha scritto il filosofo franco-cinese François Cheng, è perché fa brillare le cose che illumina: un cielo più azzurro, gli alberi più verdi, i fuori più iridescenti, le pareti più dorate, i volti più splendenti. La luce è bella solo se trova un luogo in cui incarnarsi. È attraverso le vetrate o gli arcobaleni che è possibile ammirare meglio la bellezza della luce».
Una sfida
In questo secondo e piccolo episodio, accaduto tante volte, anche se non spesso raccontato, è forse racchiuso una potente appello, una sfida, per il cristianesimo dei nostri giorni così carichi di paura e così poveri di speranza, l’appello a diventare sempre più «religione dei volti», come ha detto un giorno il teologo ortodosso Oliver Clément ricordando la sua conversione al cristianesimo in età adulta: «Sono diventato cristiano perché il cristianesimo mi è apparso come la religione dei volti».
Gli occhi di un bambino, per continuare a dirci uomini, per continuare a essere cristiani.