La lunga processione dei sacerdoti (oltre 20) e i frati dello studentato carmelitano di Brescia accompagna i due novizi all’interno del Santuario. Sono accolti dalle note di “Nostra gloria è la Croce di Cristo” intonate dal “Coro delle Laste”. Inizia quindi la celebrazione della vigilia di Pentecoste. Dopo la liturgia della parola fra Giuseppe e fra Emanuele richiedono ufficialmente di entrare a far parte della famiglia del Carmelo veneto.
Padre Fabio Silvestri durante l’omelia si addentra nel senso dell’evento che si sta vivendo: «l’episodio biblico di Babele ci racconta l’idea di costruire una torre che arrivasse al Cielo, che fosse il simbolo dell’autosufficienza dell’uomo […]; l'illusione di credere di poter costruire da soli, dal basso, il proprio futuro. È importante questo episodio della torre di Babele soprattutto se rapportato all’evento centrale della Pentecoste, in cui accade il dono dello Spirito, che non è un accordo umano che parte dal basso per determinare l’unità dei credenti ma è appunto un dono dall’alto, il dono dello Spirito che crea l’unità rispettando le differenze.
Questo spunto ci permette anche di cogliere il nesso che stiamo vivendo oggi tra il mistero della Pentecoste e quello della liturgia della professione di fra Giuseppe e fra Emanuele: perché anche la vocazione è un dono che può provenire solo dall’alto, solo da Dio. Non basta la semplice buona volontà: “io scelgo di vivere così”. E' per questo anche che serve un tempo di discernimento lungo per capire se è davvero Dio che mi sta chiamando ad una vita di questo tipo, che chiede una sequela più da vicino di Gesù ma che in ultima analisi è permessa proprio dallo Spirito che tocca il cuore delle persone e lo fa secondo un particolare carisma, in questo caso quello carmelitano, che già di per sé racconta la profondità del cuore umano che è fatto per essere abitato da Dio.
Una chiamata di questo tipo è una "parola diversa" rispetto alle tante parole del mondo o meglio quella logica del mondo che rischia di uniformarci tutti: spingendoci al desiderio di prendere il più possibile, di prendere per noi stessi, di non avere a cuore il destino degli altri, di non aver a cuore la relazione con chi ci ha creato. Questa logica a volte sembra prendere il sopravvento. Una chiamata di questo tipo è una parola diversa perché invece ricorda che il vero amore si fonda su un’altra logica. La logica del dono di sé […]. Una vocazione di questo tipo ci permette di riconoscere che realmente esiste un amore capace di riempire il cuore di un uomo e una donna e di restituire ad uomo e ad una donna tutto ciò che è profondamente umano anche là dove in qualche modo chiede la rinuncia alla via naturale del matrimonio, della famiglia, di aver dei figli o di aver un lavoro di un certo tipo. Esiste un amore così. Una vocazione di questo tipo è segno di questo mistero. Ed è un segno che chiede un voto. Diceva Santa Teresa d’Avila: “quando si comincia a servire davvero il Signore il meno che gli si può dare è la vita.” Il meno che gli si può dare è provare a dargli tutto.
Allora data la coincidenza tra la solennità della Pentecoste e la professione di Emanuele e di Giuseppe, proviamo a capire qualcosa in più di questa "parola diversa" della consacrazione della professione, per quanto ancora temporanea, nel suo senso più profondo, alla luce del dono dello Spirito Santo. Che cosa ci può dire lo Spirito a proposito di questa chiamata? Dovremmo innanzitutto ricordarci che lo Spirito Santo è quella Persona nel mistero di Dio, nel mistero della Trinità, che è il legame di amore tra il Padre e il Figlio. È quella Persona che esprime una relazione, che è anche lo Spirito del Figlio che si fa uomo e che prende una carne. Guardate che mistero che unisce il Cielo e la terra in un modo così profondo, che ci dice in cosa consista un amore senza condizioni, un amore che si dona interamente, perché è così che vivono le persone della Trinità: un costante dono reciproco in cui è sempre in gioco tutto, in cui non ci si difende, in cui ci si consegna felici di farlo. Nel momento in cui lo stesso Spirito Eterno è lo Spirito del Figlio incarnato, è come se questa verità ci stesse dicendo che nel momento in cui Gesù sceglie di vivere povero, casto e obbediente ci racconta come ci si ama in Dio, l’Amore che Dio è […]. Chi è chiamato come Giuseppe ed Emanuele ad una vocazione così è chiamato ad essere segno di un Dio che è veramente un amore vivente, non è un gioco, non è un semplice valore, ma è un amore che è una forza, che è una passione; è un amore che, verrebbe da dire, è un’emozione, ma che soprattutto è vivo ed è in grado di riempire sul serio la vita di un uomo e la vita di una donna. Chi si consacra è chiamato ad essere segno di questa bellezza».
Il rito continua con l’interrogazione da parte del padre Provinciale. Segue la vera e propria professione dei due novizi a turno in ginocchio di fronte a lui. L’intensa commozione si propaga all’interno della chiesa e si mantiene alta mentre Giuseppe ed Emanuele si alternano all’altare per firmare il registro insieme al padre Maestro e Provinciale. Qualche minuto dopo quando i padri vestono i neo-professi con la cappa bianca la gioia inizia ad apparire sui volti dei presenti, per poi esplodere in abbracci gioiosi. Si torna però subito alla sobrietà del rito con la consegna della regola e delle costituzioni. Alla fine della messa la voglia di far festa prosegue nel giardino del convento carmelitano, dove aspetta un ricco buffet preparato dai padri e i volontari del Santuario delle Laste. La "parola diversa" offerta dai due frati carmelitani ha regalato a tutti i presenti la gioia contagiosa di un’esperienza unica.
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