Ma Lorca sgombra subito il campo da interpretazioni troppo ctonie o dionisiache del duende, e nega che sia un invasamento demoniaco (benché etimologicamente duende indichi il nome di un folletto del folklore iberico):
“Così, dunque, non voglio che si confonda il duende col demonio teologico del dubbio contro il quale Lutero, a Norimberga, scagliò con sentimento bacchico una bottiglietta d’inchiostro, né col diavolo cattolico, distruttore e poco intelligente, che si traveste da cagna per entrare nei conventi, né con la scimmia parlante che l’astuto turcimanno di Cervantes porta con sé nella commedia della gelosia e delle selve di Andalusia”.
Non un folletto, non il diavolo, ma nemmeno l’angelo, o la musa:
“Angelo e musa vengono da fuori; l’angelo dà luce e la musa dà forme (da loro apprese Esiodo). Pane d’oro o piega di tuniche, il poeta riceve regole nel suo boschetto di alloro. Di contro, il duende bisogna svegliarlo nelle più recondite stanze del sangue”.
A questo punto è stupefacente notare, allora, come nel rocambolesco testo della conferenza - in una interminabile sfilata di artisti e episodi e aneddoti del mondo culturale spagnolo, dalle corride ai canti gitani ai balli andalusi, in cui Lorca tenta di cogliere questo o quell’altro aspetto del duende - due sono i luminosi esempi che meglio di ogni altro vanno al cuore della questione, e che più sono addentro in quelle “recondite stanze del sangue”: la santa madre Teresa d’Avila e il santo padre Giovanni della Croce:
“Ricordate il caso della flamenchissima e induendata santa Teresa, flamenca non per aver legato un toro furioso e averlo passato con tre mosse magnifiche, cosa che fece; non per essersi pavoneggiata davanti a fra Juan de la Miseria, né per aver mollato un ceffone al nunzio di Sua Santità, bensì per essere una delle poche creature il cui duende (non il cui angelo, poiché l’angelo non attacca mai) la trapassa con un dardo, volendo ucciderla perché gli ha carpito il suo ultimo segreto, il ponte sottile che unisce i cinque sensi a quel centro di carne viva, di nube viva, di mare vivo, che è l’Amore liberato dal Tempo.
Coraggiosissima vincitrice del duende, a differenza di Filippo d’Austria che, bramando di trovare musa e angelo nella teologia, si ritrovò prigioniero del duende dagli ardori freddi in quell’opera di El Escorial, dove la geometria confina con il sogno e dove il duende si maschera da musa a eterno castigo del gran re.
[…]
Il duende che riempie di sangue, per la prima volta nella scultura, le gote dei santi del maestro Matteo di Compostela, è lo stesso che fa gemere san Giovanni della Croce, e che brucia ninfe nude nei sonetti religiosi di Lope…
La musa di Góngora e l’angelo di Garcilaso devono cedere la ghirlanda di lauro quando passa il duende di san Giovanni della Croce, quando
Il cervo vulnerato
di sopra il colle appare”.
Quel cervo, come spiega S. Giovanni nell’autocommento teologico del Cantico spirituale (strofa XIII), che è Cristo stesso, lo Sposo ferito d’amore per la Sposa, che è l’anima del fedele.
In entrambi i casi il poeta andaluso comprende che se nessun concetto basta per descrivere il duende, il linguaggio della mistica offre invece delle immagini capaci di dire qualcosa del suo “segreto d’Amore” - il serafino trafiggente, il cervo vulnerato – che è sempre un segreto sanguinante, di Morte e di Risurrezione (“è venuto non con acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue”, sottolineerebbe l’apostolo Giovanni). Ecco dunque che i maestri spirituali per eccellenza del genio cattolico offrono a Lorca un respiro di sollievo per la delineazione del duende. Un respiro che è senz’altro riflesso, sotto mentite spoglie, dello Spirito Santo, come arriva quasi a dire Lorca:
“Il sopraggiungere del duende presuppone sempre un cambiamento radicale di ogni forma rispetto a vecchi piani, dà sensazioni di freschezza del tutto inedite, con una qualità di rosa appena creata, di miracolo, che produce un entusiasmo quasi religioso”.
E il poeta si lascia prendere sempre più da questo entusiasmo religioso, fino a prorompere, nella parte conclusiva della sua conferenza-fiume, in questo modo:
“Signore e signori, ho innalzato tre archi e con mano incerta ho messo in essi la musa, l’angelo e il duende. La musa rimane tranquilla; può avere la tunica a piccole pieghe o gli occhi di vacca che guardano, di Pompei, oppure il nasone a quattro facce con cui l’ha dipinta il suo grande amico Picasso. L’angelo può agitare capelli di Antonello da Messina, tunica di Lippi e violino di Masolino e di Rousseau.
Il duende… Ma dov’è il duende? Dall’arco vuoto entra un’aria mentale che soffia con insistenza sulle teste dei morti, alla ricerca di nuovi paesaggi e accenti ignorati; un’aria con odore di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create”.
Come non pensare, ora, alla profezia di Ezechiele sulle ossa rianimate dallo Spirito, o al racconto della Genesi in cui lo Spirito alita su un mondo appena nato? Nella mente di Lorca erano forse questi meri rimandi letterari alla Bibbia, da aggiungere ai numerosi già fatti a Cervantes, a Quevedo, a Marziale e a Giovenale?
Solo lo Spirito Santo lo sa, ed è un’altra cifra tipica del suo agire misterioso quella di nascondersi e di far capolino, con sovrana umiltà e senza imporsi, nelle opere ispirate degli artisti di ogni tempo. Ci ha fatto piacere vederLo affiorare nelle parole di Lorca. Ci è dispiaciuto che il poeta non Lo abbia riconosciuto appieno, prendendo di conseguenza fischi per fiaschi, come quando ha posto quasi sullo stesso piano il duende di un torero con il duende di S. Teresa d’Avila: qui la fascinazione estetica e la visceralità spagnola hanno impedito al poeta di misurare l’abisso che separa il mistero della più pura unione mistica da un misero “spettacolo degno di demoni”, come giustamente S. Pio V bollava le corride, sotto pena di scomunica (coerentemente con ciò Teresa ricorse all'immagine della corrida, ma in senso negativo e per dire che chi pratica l'orazione è spiritualmente sicuro dalle tentazioni come chi guarda lo spettacolo dall'alto, senza correre i rischi mortali di chi gioca davanti al toro [Cammino di perfezione, Escorial, 68,5]). E forse il nostro poeta avrebbe imparato a riconoscere l’influsso dello Spirito Santo nel duende, se avesse letto le audacissime parole di S. Tommaso d’Aquino (nel suo Commento alla Lettera ai Romani, VIII, 14) con cui lo Spirito Santo è definito un “istinto” che agisce non dal basso, come per le api o per i piccioni viaggiatori, ma bensì dall’alto e dal dentro, in grado di suscitare nell’uomo spirituale il volere e l’operare, pur senza togliergli il libero arbitrio, “perché egli verrà come un fiume irruente, sospinto dal vento del Signore” (Isaia 59,19).
Ma forse non Lo avrebbe riconosciuto neanche in tal caso. E’ che non è facile, neanche per il poeta più sensibile o smaliziato, cogliere l’aspetto più trasgressivo e provocatorio che lo Spirito Santo abbia: né demonio né folletto, né angelo né musa, ma persona.