Iniziamo dunque dalla prima immagine, «l’anima come un vaso»; il paragone proposto da san Giovanni è uno dei motivi più notevoli della riflessione agostiniana, usato per descrivere il tema della “tensione tra «Dio che è in noi» e «noi che siamo in Dio»”2, come viene espresso in questo brano delle "Confessioni":
«O piuttosto nulla ti occorre che ti contenga, tu che tutto contieni, poiché ciò che colmi, contenendo lo riempi? Davvero non sono i vasi pieni di te che ti rendono stabile. Se anche si spezzassero, non ti disperderesti. E quando ti riversi su di noi, non tu ti abbassi, ma noi elevi, non tu ti disperdi, ma noi raduni. Però ogni essere che colmi di te, con tutto il tuo essere lo riempi» (1, 3, 3).
Dio abita nell’uomo e lo riempie di sé come un liquido dentro ad un vaso. Il paragone appare certamente paradossale, ma Agostino lo riequilibra, ponendo come condizione di partenza la capacità limitata – passi pure questa espressione per mantenere viva l’immagine – dell’uomo-vaso: questo, infatti, funge solo da «recipiente», ma non può contenere totalmente Dio, anzi l’uomo “è immerso nel Dio che vuole contenere, come un vaso sommerso nell’oceano, che può dire di essere pieno dell’oceano e di contenere l’oceano proprio perché è da quello contenuto e pervaso”3. Con lo stesso paragone san Giovanni della Croce descrive l’anima innamorata, già di per sé immersa in Dio e ferita dall’Amore che lo Sposo divino ha provocato in lei, come un vaso pronto e desideroso di contenere totalmente Dio, ma ancora vuoto. Lo Sposo infatti, dopo averle piagato e conquistato il cuore4, si nasconde e le fa sperimentare la sua assenza.
Ma l’immagine del uomo-vaso (pieno o vuoto che sia) prepara anche il nesso leggero-pesante, che sembra comparire sotto l’immagine – come scrive san Giovanni nel Cantico – di «chi sta sospeso in aria e privo di sostegno a cui appoggiarsi». Riportiamo a proposito un altro passo delle "Confessioni", in cui i due rapporti (pieno/vuoto e leggero/pesante), ancora una volta usati per riferirsi all’uomo, vengono uniti insieme in modo particolare.
«Ma ora, dal momento che Tu sollevi chi riempi ed io non sono pieno di te, sono di peso per me stesso» (10, 28, 39).
5. In realtà anche sant’Agostino, poco dopo, ammette che avrebbe dovuto alzare a Dio la sua anima sofferente per aprirsi alla sua opera guaritrice («a Te, Signore, dovevo sollevarla e farla curare», 4, 7, 12). Si ritorna così a Conf. 10, 28, 39, da cui siamo partiti per descrivere l’immagine di chi è «sospeso in aria» (Cantico, strofa 9); anche in questo caso viene prospettata l’azione operante e possibile di Dio che solleva e «alleggerisce» l’anima, anche dalle sue pene. Il verbo latino "sublevo" infatti, a partire dalla sua etimologia (sub e levo), significa “sollevare, alleviare, alleggerire” e viene usato in senso specifico nelle Confessioni come verbo della Grazia divina. Così Agostino può ben dire che si sente un peso per se stesso, perché non sta ancora sperimentando la leggerezza di chi è pieno di Dio ed è unito a Lui. Allo stesso modo san Giovanni lascia l’anima innamorata sospesa e inquieta, perché non può trovare riposo e sostegno sicuro senza l’Amato.
Si può notare già a prima vista come i due nessi siano stati combinati insieme con l’effetto contrastante di mettere in relazione l’essere vuoto e privo di Dio con il peso da portare. L’immagine dell’onus non è nuova nelle "Confessioni", ma viene impiegata già in 4, 7, 12 per riferirsi all’anima inquieta e sofferente (in questo caso, per la perdita di un amico molto caro): «portavo la mia anima lacera e sanguinante, insofferente di essere portata da me, non trovavo luogo dove deporla… mi pesava con un grande peso di tristezza». La sofferenza dell’anima addolorata, come di quella innamorata, è tanto grande che non vi è luogo dove trovare riposo, né «sostegno a cui appoggiarsi», riprendendo le parole di san Giovanni della Croce. Sembrerebbe unica la soluzione sperata, ovvero il ritorno, quello (impossibile) dell’amico morto nelle "Confessioni" e quello dello Sposo divino, del quale si aspetta che sveli la sua presenza risanatriceL’anima quindi cerca il suo Signore per trovare in Lui riparo e protezione, e ancor più per essere guarita dal suo Amore, come già è trapelato in qualche riga poco sopra. A san Giovanni che ci presenta l’anima priva dell’Amato come «un infermo che sospira per la salute», possiamo ancora accostare l’anima lacera e sanguinante di Conf. 4, 7, 12; ma, riconosciuta la malattia, è già pronta la cura:
«Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena da nessuna parte. Vedi che non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato: tu sei misericordioso, io sono misero» (Conf. 10, 28, 39)6.
Anche in questo caso sant’Agostino e san Giovanni della Croce si trovano vicini nel descrivere l’immagine dell’anima malata e ferita dall’Amore divino7. Dio è nello stesso tempo colui che provoca, in un certo senso, l’inquietudine e la sofferenza e anche il guaritore dell’anima, svelando la sua presenza e il suo volto di misericordia e di amore totalizzante.
Infine, riprendendo ancora le parole di san Giovanni della Croce, il Signore è lo Sposo, che colma il «vaso vuoto», che sana le ferite dell’«infermo», che offre rifugio e sostegno a «chi è sospeso in aria»; il Signore è ancora di più lo Sposo che dona se stesso all’«affamato che desidera cibo». È questa l’immagine suggerita nel "Cantico", che manca alla descrizione e che ancora una volta possiamo accostare alle "Confessioni"; è proprio così che Cristo si presenta a sant’Agostino, rientrato in se stesso per la prima volta:
«Io sono il cibo dei forti. Cresci e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il cibo della tua carne, ma tu in me» (7, 10, 16).
Anche in questo caso vediamo come sant’Agostino e san Giovanni della Croce ricorrano alla stessa immagine per descrivere il rapporto tra lo Sposo divino e l’anima innamorata, ma anche affamata perché non gode e non può godere ancora dell’Amato. Il Signore, sposo dell’anima, è cibo sia nelle "Confessioni" sia nel "Cantico". Un’allusione eucaristica? Sul passo agostiniano non c’è l’accordo degli studiosi, come pure probabilmente non se ne può avere la certezza per san Giovanni, ma l’idea resta nella sostanza suggestiva.
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Note
[1] Cant., strofa 9: «Dopo aver piagato /questo mio cuor, perché non lo sanasti? /Giacchè me l’hai rubato, /perché così il lasciasti, /senza prender con te quel che rubasti?».
[2] Pizzolato, in Sant’Agostino, Confessioni, a cura di Manlio Simonetti; traduzione di Gioacchino Chiarini, Milano 1992, p.135.
[3] Ivi, p. 136.
[4] Cfr. Cant., strofa 9.
[5] Cant., strofa 11 «Scopri la tua presenza, /mi uccida la tua vista e la tua bellezza, /sai che la sofferenza /di amore non si cura /se non con la presenza e la figura».
[6] Sulla necessità di Cristo, medico dell’anima e del corpo, si può leggere anche serm. 63/A, 2, in cui sant’Agostino commenta la guarigione dell’emorroissa: «È necessario avere il medico che venne per curare le malattie dell'anima; ma volle guarire le malattie del corpo per mostrarsi salvatore dell'anima, perché è il creatore dell'uno e dell'altra. (…) Ecco perché curò il corpo: l'anima nel corpo era attenta in modo da desiderare che accadesse nel suo intimo ciò che vedeva all'esterno compiuto da Gesù. (…) È necessario quindi che guarisca l'interno colui che guarì l'esterno, perché si facesse desiderare per guarire l'interno».
[7] Si tratta in fondo di questo anche per il racconto di conversione delle Confessioni: la ricerca di Dio è di per sé la ricerca di un Dio che ama e che vuole essere amato e Agostino lo riconosce a chiare lettere più volte. Un esempio su tutti è la forse più nota e più bella invocazione a Dio: «tardi ti amai bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai» (Conf. 10, 27, 38).