Per Giovanni della Croce tale infinito ha decisamente il nome di Colui che è l’unico a poter “saziare il cuore” (cfr. Cantico Spirituale 35,1).
Nella Llama riprende il tema, precisando che ad essere insaziabili sono esattamente “le caverne dell’uomo”, nome che egli dà alle tre potenze dell’anima: intelletto, volontà e memoria. Sono esse che “no se llenan con menos del infinito” (Fiamma d'amor viva 3,18): sete infinita dell’intelligenza che desidera conoscere Dio; fame infinita della volontà che può saziarsi solo con la perfezione dell’amore e dell’unione; struggimento infinito della memoria che si acquieta solo ricordando gli infiniti beni che le sono stati promessi. «È quindi profonda la capacità di queste caverne, perché possono contenere Dio che è un abisso di bontà infinita. Perciò anche la loro capacità sarà in un certo senso infinita, come infinita sarà la loro sete; anche la loro fame sarà infinita e profonda, e il loro struggimento e pena saranno morte infinita» (Fiamma d'amor viva3,22) È importante, però capire, che queste “profonde caverne” non soffrono solo perché niente riesce a riempirle (che non sia Dio stesso), ma soffrono anche più quando si pretende saziarle con qualche briciola: «È cosa che desta meraviglia il fatto che – potendo tali caverne contenere beni infiniti – basta anche un piccolissimo bene a ingombrarle, e così non possono ricevere quei beni infiniti se prima non si svuotano (Ivi). Ma la suprema tristezza è che esse rischiano di non accorgersi più del grande bene di cui si privano: «Difatti, in questa vita, qualsiasi inezia che vi si attacchi è sufficiente per tenerle talmente ingombre e incantate, che esse non sentono né rimpiangono la perdita di beni immensi e neppure si rendono conto di quanto potrebbero contenere. Stupisce il fatto che, pur essendo capaci di beni infiniti, basta il minimo bene umano a ingombrarle in maniera tale da impedir loro di riceverli, finché, come dirò, non se ne saranno completamente liberate» (Fiamma d'amor viva3,18).

Abbiamo già visto [nell'opera Salita del Monte Carmelo] con quale radicalità Giovanni della Croce neghi la strada che porta al soddisfacimento degli appetiti, dato che, percorrendola, l’uomo si scontra sempre con questa legge inesorabile: «Tutte le creature sono briciole cadute dalla mensa di Dio… e le briciole servono più a stimolare l’appetito che a togliere la fame, perciò chi è dominato dagli appetiti è sempre scontento come chi abbia fame» (Salita del Monte Carmelo I, 6,3). Molte inquietudini, molte tristezze, molte sensazioni di fallimento, dipendono da questo, anche se spesso l’uomo non ne è cosciente. Sappiamo che solo l’anima innamorata sa dare a se stessa il giusto avvertimento: «Che cosa cerchi anima mia? Tutto è tuo e tutto è per te. Non ti fermare su cose di poco conto e non contentarti delle briciole che cadono dalla mensa del Padre tuo!» (Detti di luce e amore 27). Nella Llama questo rimandoall’infinità di Dio e dei suoi beni è costante. Ricordiamo l’attesa che il Padre ci abbracci “con la sua forza divina nell’infinito abbraccio della sua dolcezza” (Fiamma d'amor viva1,15); ricordiamo che lo Spirito è “un fuoco d’amore infinito” (Fiamma d'amor viva2,3), “dotato di forza infinita” (ivi2,5); ricordiamo che il Figlio ha un essere infinito e di infinita delicatezza (ivi2,20). Dire dunque che l’uomo “non si sazia con meno di Dio” equivale a dire che egli deve lasciarsi invadere dall’Infinito al punto da esserne riempito e trasformato, fino a che si possa dire con piena verità che: «l’intelletto di quest’anima è intelletto di Dio; la sua volontà è volontà di Dio; la sua memoria è memoria di Dio; le sue delizie, delizie di Dio. La sostanza di quest’anima non è sostanza di Dio, perché non può trasformarsi sostanzialmente in lui. Ciò nonostante, siccome è unita a Dio e assorbita in lui, è Dio per partecipazione». (ivi 2,34).

Un’ultima avvertenza è tuttavia necessaria. Se nella Llama Giovanni parla delle “caverne dell’anima” che Dio sazia riempiendole della sua Presenza, non dobbiamo dimenticare, però, che sta parlando di un’anima che ha passato già molto tempo nascosta bene addentro nelle “caverne di pietra” di Cristo, cioè nei santi misteri della sua Divino-umanità. Lo ha già spiegato nel Cantico Spirituale, commentando la strofa 37:

«La pietra di cui parla qui, secondo san Paolo, è Cristo (1 Cor 10,4). Le profonde caverne di pietra sono gli alti, sublimi e profondi misteri della sapienza di Dio, presente in Cristo, che riguardano l’unione ipostatica della natura umana con il Verbo divino, la correlazione che esiste tra quest’unione e quella degli uomini con Dio; l’armonia tra la giustizia e la misericordia di Dio nella salvezza del genere umano; la manifestazione dei suoi giudizi, che, a motivo della loro sublimità e profondità, molto giustamente sono chiamati profonde caverne: profonde, per la sublimità dei misteri divini; caverne per l’immensità e l’insondabilità della sapienza di Dio racchiusa in essi; come le caverne sono profonde e hanno molte sinuosità, così ogni mistero del Cristo è molto profondo in sapienza e contiene molti recessi dei suoi segreti disegni sulla predestinazione e la prescienza riguardanti i figli degli uomini» (Cantico Spirituale 37,3).


[1] Citato in A. Ruschioni, Poesia metafisica della luce, Milano 1988, nel saggio su Pirandello.

[2] «Essere, essere sempre, essere senza fine! Sete di essere, sete di essere di-più! Fame di Dio! Sete di amore eternizzante ed eterno! Essere sempre! Essere Dio» (Del sentimiento trágico de la vida, Espasa- Calpe, S.A., Madrid 1976, p. 56).

[3] Cfr. Seigneur apprénez nous a prier, Gallimard, Paris 1942, p. 43.