Ieri 29 alle 4 di mattina sono partito – fr. Sergio alla guida – dal convento di Brescia; tragitto per Linate ottimo, alle 5 eravamo all’aeroporto (molto prima del necessario), aereo partito in orario; posto, sul corridoio, fissato dall’agenzia. Alla mia sinistra, un giovane yuppie in elegante completo nero che, gli occhi bassi, per tutto il viaggio non ha smesso di battere con foga sui tasti del suo computer ultrapiatto (l’ha però correttamente spento al decollo e all’atterraggio). Alla mia destra, al di là del corridoio, una garrula fanciulla italiana che scambiava cinguettii con l’amica seduta a sinistra dello yuppie; lo scambio avveniva quindi sotto il mio naso: scambio non solo di immateriali parole e gridolini ma anche, all’approssimarci a Parigi, di arnesi per il trucco, che si passavano l’un l’altra. Arrivati a Parigi in orario, la mia più grande preoccupazione si è rivelata infondata: non solo non ho perduto la coincidenza, ma la porta di arrivo e quella di partenza erano così vicine, la fila al controllo passaporti così breve, che ho dovuto aspettare quasi un’ora per l’imbarco sull’aereo per Tana. Pienissimo, questo, un Airbus 340 da 300 posti più o meno posti, e quelli vuoti erano pochissimi. Qui, nel posto davanti al mio, una gigantessa direi alta 1,90 e di stazza sui 120, subito ha reclinato il suo schienale imprigionandomi in angustissimo spazio, rendendo difficile la visione del mio piccolo schermo, e bloccando la luce individuale del mio faretto in alto. Era nel suo diritto, ma quanta pazienza! Non ha drizzato lo schienale che per i pasti. Io ero sul corridoio; alla mia sinistra, all’oblò, una signora di mezza età, malgascia ma con nazionalità anche francese, originaria del Nord dell’isola. Dopo il pranzo, avendole detto che ero un religioso cattolico, ‘Anch’io ero cattolica’ mi fa, e continua fervorosa ‘adesso sono Testimone di Geova’. Ha cominciato subito a catechizzarmi a colpi di ‘voi’ e ‘noi’, prima a proposito della Trinità e dell’Incarnazione, e poi a proposito dell’immortalità dell’anima passando per diversi altri punti di dottrina; io opponevo alle sue citazioni bibliche altre citazioni, cercavo di spiegare i malintesi, ma senza molto successo – era partita in quarta, forse per salvarmi dalla perdizione e farmi arrivare, se non tra i 144.000 in cielo, almeno fra la moltitudine di coloro che condurranno vita felice in terra. L’ho interrogata sulla nascita, e sulla storia, dei Testimoni, ma questo era un punto che non sembrava interessarle, tornava sempre di nuovo alle citazioni bibliche. Mi ha colpito questa idea su cui è tornata più volte: ‘voi’ (cioè noi cattolici) parlate tanto di mistero, ma ‘noi’ (i Testimoni di Geova) sappiamo tutto, capiamo tutto, e giù, a testimonianza e ad esempio, collegamenti biblici più o meno audaci: “Quando ero cattolica – è sempre lei che parla – non sapevo che cosa volesse dire ‘sia santificato il tuo nome’ e nemmeno ‘venga il tuo regno’, adesso lo so”. A parte l’ingenuità, penso ci sia al fondo un qualcosa di vero, che è al tempo stesso un rimprovero per noi: la scarsa conoscenza che, spesso, i cattolici hanno della Scrittura, e della propria fede. Lei ha passato una gran parte del tempo, durante il viaggio, a leggere un testo di catechesi della sua setta. Far sì che stesse veramente a sentire, impossibile. Ho ripiegato su un’altra tattica: all’arrivo, le ho portato fino al salone dei controlli il suo pesante bagaglio a mano – uno dei suoi tre bagagli a mano.

Dai testimoni di Geova all’Islam: durante il viaggio in macchina da Ampasanimalo a Itaosy, P. Tsitohaina mi ha parlato delle voci spesso bizzarre che si diffondono sull’attività dei musulmani in Madagascar, comunque testimonianza della percezione del loro indubbio imponente sforzo di propagazione nel Paese. Esempi: hanno rubato la campana (piccina) della chiesa di Manampisoa che chiamava i fedeli alla Messa? Qualcuno dice che sono stati i musulmani. Altra voce: dalle parti di Tamatave, andrebbero di porta in porta dalle famiglie cattoliche ad acquistare Bibbie a prezzi allettanti, per ostacolarne la conoscenza. Le donne e ragazze, anche non musulmane, riceverebbero denaro perché portino il velo (è vero che a Tana anni fa non se ne vedevano proprio, adesso se ne vedono frequentemente). Ancora – e questo secondo il suddetto Padre sembra sia vero – ad Antsirabe sarebbero organizzate elargizioni di viveri nel momento stesso in cui si celebrano le Messe. Tutte baggianate? Certo che la situazione di estrema povertà di una così gran parte del popolo gioca a favore di questo tipo di proselitismo – un esame di coscienza per le élites cristiane dell’isola.

Torniamo al viaggio: dopo una sobria colazione verso l’imbocco nord del Canale di Mozambico, arriviamo a Tana con un quarto d’ora di anticipo, verso le 23.15; poi, fila di un’ora per il controllo sanitario e di polizia (scanner di tutte e 5 le dita delle 2 mani), e quasi un’altra ora per aspettare i bagagli (forse a Parigi caricano per primi quelli dell’aereo da Linate, perché io sono sempre tra gli ultimi). Poi – e qui siamo al ‘quasi’ del titolo – finalmente esco scortato dal portabagagli che mi ha aiutato (non gratuitamente, mi dice che loro non ricevono salario ma vivono delle mance); sono sicuro di trovare qualcuno ad aspettarmi, come sempre avviene, ma non vedo nessuna faccia nota. Ostento sicurezza (stanno solo tardando un po’ ...) per scoraggiare i tanti che subito accorrono per offrirmi il loro servizio di taxi (abusivo); cerco ripetutamente di allontanare anche il portabagagli che ha già ricevuto il suo; senza riuscirci, per fortuna, perché poi, quando sono ormai scomparse tutte le scritte che inalberavano davanti al flusso dei passeggeri in uscita scritte del tale albergo o del tale Istituto religioso, quando ormai i presenti sono pochissimi, è lui che mi mette a disposizione il suo telefonino (il mio non è abilitato, è secco, è scarico, perdono P. Fabio). Quelli che si offrivano di accompagnarmi dicono che ‘il Padre non si fida’, io taccio perché è proprio così, è proprio vero, ho paura di affidarmi, di notte, a non si sa chi, con le valigie cariche di cose presumibilmente appetibili, e con le tasche presumibilmente gonfie, visto che sono appena sbarcato dall’aereo. Finalmente per telefono riesco a svegliare uno studente di Ampasanimalo, lo studente cerca P. Cesare. Però la linea subito si interrompe perché è finito il credito; do dei soldi al portabagagli (è la sua sera fortunata, ma anch’io sono stato fortunato ad averlo vicino, anzi fortunatissimo) perché si procuri nuovo credito. Ritelefono e parlo con Cesare che credeva sarebbero venuti i Padri di Itaosy (e, penso, è quello che i Padri di Itaosy pensavano di lui). Gli chiedo di venire a prendermi per favore, io non mi muovo di lì. Lui capisce, sveglia uno studente che guidi e parte. Il tragitto da Ampasanimlo all’aeroporto è lungo, io passo il tempo andando su e giù per il viale davanti a pochi spettatori, spingendo il carrello carico dei miei bagagli (il portabagagli se ne è andato ormai soddisfatto, e io ho da smaltire 14 ore di viaggio seduto). Lì mi sento al sicuro, c’è ancora qualcuno davanti all’aeroporto che ormai smorza le luci, e ogni tanto passano due gendarmi. All’inizio gli spettatori del mio andare e venire sembrano un po’ stupiti dell’insolita scena, poi non ci fanno più caso – solo un piccoletto mingherlino, non so se per prendermi garbatamente in giro o perché è un po’ tocco, ogni tanto mi grida dietro col braccio levato: ‘Tout est bien!’ ‘Tout est bien!’-

In effetti, tutto è finito bene, in letto verso le 2.30 di oggi 30 novembre, S. Andrea apostolo. Mi addormento per intermittenze, causa la fatica, mentre il gallo già lancia il suo annuncio perentorio della luce che verrà.