Ciò, però, non significa che non ci sia più niente da esplorare o da scoprire in Teresa, tutt’altro! L’abbondante produzione di contributi scientifici e divulgativi ci aiuta certamente nell’approfondire e aggiornare la nostra conoscenza di Teresa, ma non esaurisce la ricchezza della sua persona e della sua opera. Teresa, in certo qual modo, resta un mistero dalle profondità insondabili, di fronte al quale si continua a restare meravigliati, Teresa direbbe “espantados”, parola che contiene in sé il brivido dell’infinito e dell’incommensurabile, quel brivido che la bambina Teresa avvertiva quando ripeteva col fratello Rodrigo: “¡Para siempre, siempre, siempre!” (V 1,4).
Nel corso dei secoli tanti aspetti del multiforme ingegno di Teresa sono stati messi in luce: la maestra dell’orazione e della dottrina spirituale, la pioniera nell’analisi dell’interiorità, la donna che si libera dai condizionamenti del suo tempo, l’umanista che ridà alla persona il suo valore e la sua centralità, la comunicatrice che inventa un linguaggio originale e apre nuovi orizzonti alla lingua castigliana, per citarne solo alcuni. Ma Teresa rimane sempre al di là di tutti questi titoli e di tutte questi beni che ci ha lasciato in eredità: il segreto del suo volto rimane inafferrabile (in questo senso possiamo scusare il suo modesto ritrattista, Juan de la Miseria, per averla dipinta “brutta e cisposa”).
Perché Teresa era al tempo stesso sublime e concreta, perduta in Dio e attenta a ogni questione pratica, estroversa e amante della solitudine, dolcissima e severa, impegnata nelle battaglie di ogni giorno e con il cuore anelante alla vita eterna. Se perdessimo di vista questa tensione che attraversa tutta la sua persona, ridurremmo Teresa a una immagine piatta, statica, banale. Se scrisse e portò sempre con sé quelle parole che tutti conosciamo: “Nada te turbe, nada te espante”, è proprio perché aveva bisogno di ripetersele in continuazione, come un naufrago che, travolto dalle onde, si aggrappa all’unica tavola di salvezza che gli si offre: quella dell’abbandono in Dio. Come potremmo capire Teresa senza questa lotta, senza questa stanchezza, senza questa esperienza di essere costantemente minacciata dai gorghi dei “tiempos recios” in cui le è toccato vivere? E in questo affanno, in questa continua altalena di innalzamenti e sprofondamenti, il suo sguardo continua a scrutare l’orizzonte cercando la figura dell’Amico, dell’Amato, del Maestro, del Capitano. E quando riesce a intravederla, le sue forze si rianimano, può andare avanti ancora per un altro tratto, capisce che il lavoro non è finito, ancora non è giunto il momento di incontrarsi faccia a faccia. Ma ogni volta che sente suonare l’orologio, si rallegra perché un’altra ora della vita è passata e si è così avvicinata un po’ di più al momento in cui potrà vedere Dio (V 40,20).
“In questo modo vivo ora”: così Teresa cerca di descriverci il suo stato d’animo, la sua coscienza profonda. È su questo sfondo che dobbiamo collocare la sua opera, se non vogliamo travisarne il senso, se vogliamo trovare l’intonazione esatta con cui leggerla. E soprattutto se vogliamo imparare a vivere come lei, se vogliamo condividere non solo le sue idee, ma il suo sentire, il suo modo di essere al mondo, libera e prigioniera, impegnata e totalmente distaccata, inquieta e stabilmente in pace. Sì, effettivamente abbiamo ancora molto da imparare alla scuola della sua sapienza».