Il film non mostra l’ultimo atto: Will che si dà la morte. E infatti come potrebbe un tetraplegico senza l’uso delle braccia bere la pozione mortale come prevede la legge sul suicidio assistito in Svizzera dove non è permessa l’eutanasia compiuta da un medico o da altri? Infatti la distinzione è chiara: «Un medico che somministra intenzionalmente un’iniezione letale per porre fine alla vita del paziente sofferente, su richiesta del paziente, esegue un’eutanasia volontaria – precisa J. Keown alla voceSuicidio assistito nella Nuova Enciclopedia di Bioetica e Sessuologia – mentre un paziente che prende intenzionalmente farmaci letali forniti da un medico commette un suicidio assistito». Ma al film non interessa dire la verità dei fatti e neppure rispettare la legge svizzera, anzi, spinge per cambiare le leggi che rispettano la vita e la dignità delle persone umane.

Nelle maggior parte delle giurisdizioni del mondo l’eutanasia e il suicidio assistito sono un grave reato, mentre in altre sono legalizzati. In Svizzera «non è reato per una persona aiutare un’altra a suicidarsi se il motivo di assistenza non è egoistico» e sono sorte associazioni che organizzano centri per il «suicidio assistito per centinaia di persone, tra cui molte provenienti da altri paesi». Il suicidio assistito sembra ricevere tra la gente più consensi che l’eutanasia perché accentua l’autonomia del paziente nel volere e operare la fine della sua vita, schiacciata da sofferenze insopportabili, giustificando il tutto con il diritto alla libertà individuale di prendere decisioni sulla propria vita, anche di porvi fine. L’argomento contrario sostiene che la libertà individuale ha dei limiti poiché la vita è sacra e inviolabile, e si ritiene che chi chiede la morte viva forme di depressioni esistenziali o paure di essere un peso per gli altri, cose che potrebbero essere superate dalla cura amorevole delle altre persone in relazione viva col malato. È quello che cerca di fare Lou nei confronti di Will ma, restando su un piano che non si apre al trascendente, rischia di non offrire alla disperazione dell’altro la vera speranza in Dio che potrebbe “cambiargli la vita”.

Per alcuni la medicina ha «il dovere di alleviare le sofferenze dei pazienti, anche se questo comporta aiutarli a porre fine alla loro vita». Ma si può ribattere che la medicina ha fatto enormi progressi nell’eliminare la sofferenza “totale” grazie alle cure palliative e attraverso forme non eutanasiche di sedazione palliativa.

Per sostenere la causa dell’eutanasia si afferma che non esiste una differenza etica tra questa e l’interruzione di un trattamento perché sproporzionato, o l’utilizzo di una terapia antidolore, nel caso si preveda, ma non voluta, l’accelerazione della morte. In questi casi invece l’intenzione del gesto e le circostanze sono molto diverse all’interno di una decisione etica corretta.

Nei paesi dove si è legalizzata l’eutanasia si pensava di poter controllare il fenomeno e di limitarlo con severe misure restrittive, ma la storia ha dimostrato che le richieste aumentano a dismisura e che le condizioni per accedervi sono sempre più ampie, fino ai malati psichici, per i quali non si può parlare di esplicita e libera richiesta. I promotori dell’eutanasia hanno dalla loro parte mass-media e scrittori con le loro storie toccanti di singoli pazienti che hanno scelto la morte perché “la loro vita non era più degna di essere vissuta”, ma non ci si rende conto dell’affronto così fatto alla dignità delle persone con disabilità fisiche o mentali.

* Professore di bioetica

Pubblicato in Gente veneta, anno XLIV, n. 39 (26 ottobre 2018) p. 3.