Il caso Rosmini
La nostra domanda può trovare una prima facile ma non irrilevante risposta per il caso di Antonio Francesco Davide Ambrogio Rosmini-Serbati (1797-1855), filosofo di prima grandezza e venerato come beato dal novembre 2007. Egli ebbe un’influenza globale, sia filosofica sia religiosa, sull’esistenza dello Sciacca, come egli stesso ebbe occasione a più riprese a dichiarare: “Come pensatore non sarei quel che sono senza il Rosmini e, nei limiti del mio itinerario intellettuale, neppure cattolico, in quanto […] furono le sue opere a dispormi «intellettualmente» alla conversione o al ritorno, dopo quasi vent’anni; il resto fu conquista interiore, opera della grazia di Dio, la quale, come quella che non si riceva una volta per tutte, è azione rinnovata e conquista continua da parte nostra, mai pacificamente «convertiti» e sempre sul punto di convertirci tra mille dubbi e innumeri cadute. E a vincere in quei due anni di «cura radicale» i dubbi non pochi né deboli, mi fu vicino mons. Olgiati con consigli affettuosi di coraggio a persistere con fede e speranza, e prossimo padre Bozzetti, allora e per sempre, anche oggi che esiste nella pura Luce di verità e di carità, di cui i suoi occhi, il suo sorriso e la sua parola erano vestigio e testimonianza” [La clessidra, Marzorati, Milano, 1963, p. 114]. Dal Cielo i tre, immersi nella massima Comunione, avranno gioito dei progressi della causa del Rosmini e forse Teresa, generosamente, si sarà disposta a lasciare ad Antonio lo scettro del “più amato”.
Antonio e Teresa
Vale dunque la pena, alla luce di questi fatti, chiedersi anche quale rapporto sia intercorso tra il Roveretano e l’Abulense su questa terra. Se, in generale, può valere per il coltissimo sacerdote Rosmini la dichiarazione poi resa su Teresa da Pio X in occasione del trecentesimo anniversario della sua beatificazione (1914): “A ragione la Chiesa le ha riconosciuto gli onori che sono riservati ai Dottori, dal momento che nella liturgia a lei dedicata la Chiesa prega Dio così: «Concedi a noi, tuoi fedeli, di nutrirci spiritualmente della sua dottrina, e di essere infiammati da un vivo desiderio di santità»”, in particolare bisogna riconoscere che nelle opere di Rosmini i riferimenti a Teresa d’Avila appaiono alquanto scarsi, come rileva Fulvio De Giorgi [La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 435].
Ci risulta un solo passo del Roveretano che vada oltre il semplice riferimento: lo offriamo al lettore anche quale saggio di quella infelicità di scrittura che Augusto Del Noce non poté esimersi dall’annotare su Rosmini: “Quindi è che negli uomini santi, durante specialmente la visitazione superna e la comunicazione di lumi e di grazie gratofacienti, nei quali momenti il sentimento della presenza di Cristo è più vivace, non si manifesta la tentazione di vanagloria e di superbia, quando anzi sono occupati e compresi da un sentimento indicibile di umiltà, e si sentono sospinti incredibilmente a glorificare Iddio: il che attestano essi medesimi, come si può vedere, fra gli altri scritti dei santi, nelle opere di santa Teresa di Gesù [...]” [da Dio è amore. Pagine scelte, Edizioni Paoline, Alba, 1993, p. 226].
Una svolta?
Ci eravamo dunque infilati in un vicolo cieco. Come proseguire? Bisognava scavare ancora, setacciando bene il pietrisco. Ecco qui la pagliuzza che trovammo, quella che riaccese le nostre speranze di imbatterci in qualche pepita, forse persino in un filone d’oro. Descrivendo il suo percorso filosofico dall’idealismo oggettivo alla «filosofia dell’integralità», Sciacca scrive: “Solo attraverso una nuova lettura della Teosofia del Rosmini, su cui ebbi modo di ritornare a scrivere nel breve saggio Gentile interprete di Rosmini (1950), e un più approfondito contatto, da un lato con il Bergson, il Lavelle e i grandi mistici spagnoli e, dall’altro, con Heidegger e ancora con il Gentile come stimoli autocritici e bersagli di critica, nell’autopresentazione La mia prospettiva filosofica dello stesso anno […] potevo enunciare il mio nuovo punto di vista, svolto ed approfondito nel volume L’interiorità oggettiva (1951), pubblicato in francese e primo della edizione delle Opere complete in corso di pubblicazione, quasi ad indicare il punto di arrivo, da cui procedere per gli sviluppi ulteriori e rispetto al quale, i due decenni di attività anteriore sono solo preparatori” [La clessidra, op. cit., p. 123]. I “grandi mistici spagnoli”, tra gli altri, hanno dunque contribuito in modo decisivo alla maturazione del nuovo punto di vista filosofico dello Sciacca, al contempo punto di arrivo e di ripartenza.
Filosofia & filosofare perenni
A questo punto ci sembra necessario mettere in luce la modalità fondamentale del pensiero di Sciacca. Nell’introduzione a L’interiorità oggettiva, scrive: “Io credo che ogni pensatore abbia il dovere d’inserire la sua personale meditazione nel momento storico in cui egli vive. Non dico ciò in senso storicistico (ogni epoca ha la sua verità e la verità è una questione stagionale), né nel senso praticistico o empirico di un interesse limitato solamente ai problemi contingenti di un determinato periodo. Parlo di inserzione teoretica, cioè nel grado di scoperta della verità, il cui scoprimento è storico e come tale successivo e progressivo nel tempo. Tale inserzione è perciò stessa «critica» in quanto implica un «giudizio», una valutazione del progresso del pensiero. Questa consapevolezza è una conquista che la filosofia moderna ha approfondito e chiarito; ed io mi sento di accettarla. Da questo punto di vista, teoreticamente, interessa conoscere che cosa, per esempio, abbiano pensato Platone o Aristotele, Agostino o Tommaso, solo per quegli aspetti parziali che hanno scoperto nell’infinito inesauribile della verità e che, come verità essi stessi, sono perenni nella perennità del vero. Ma per la parzialità stessa di ogni scoperta e per la fecondità intrinseca di ogni verità, non vi è pensatore che possa essere dogmaticamente decretato (e se lo è, il concreto filosofare annulla per suo conto ogni decreto) la misura assoluta o solo obbligata, punto di partenza e punto di arrivo. Non vi è, in questo senso, una filosofia perenne; c’è il filosofare perenne come perenne scoperta della verità. Ho detto «scoperta», non «sviluppo». […] Non c’è storia della verità ma c’è storia dell’umana scoperta di essa” [L’interiorità oggettiva, Marzorati, Milano, 1965, p. 16s.].
Il momento storico
Detto ciò, basterà aggiungere un secondo elemento, concernente la comprensione del “momento storico” secondo Sciacca, per poter riformulare la domanda di partenza della nostra frammentata ricerca su quest’amicizia. Riteniamo di poter ricorrere all’elemento maggiore, cioè la critica all’immanentismo, la cui espansione caratterizza gli ultimi secoli e la contro testimonianza, in esigua compagnia, della trascendenza. Che cosa significhi allora essere amici del filosofo Sciacca, Teresa? Contribuire con la propria esperienza di Dio, sempre più attuale, al vulcanico filosofare di Michele Federico, verso una “filosofia dell’integralità”, verso “la sola metafisica valida, quella della verità” [L’interiorità oggettiva, op. cit., p. 41].
Il valore della persona umana
Aggiungiamo come postilla riposante, per poi riprendere il nostro discorsetto e condurlo ad un qualche esito, una bella citazione di Sciacca sulla presenza di Dio nel cuore dell’uomo, tratta dalla già ricordata Interiorità oggettiva. “Ancora un’ultima considerazione, il valore della persona umana, per cui l’uomo è spirito ed è esistenza di valore, va cercato non nella ragione come tale, che è capace persino di rinnegare il Dio che la illumina, ma nella verità che è oggetto della mente. Essa fa che l’uomo pensi nella verità; anche nella pazzia, non l’abbandona mai. È sempre lì a dici, che il più reietto degli uomini, il più perduto ed il più scellerato, va sempre rispettato, appunto perché in lui è presente Dio, vi è luce divina, un deposito sacro. Perciò la persona è sacra: l’essere come Idea è il divino nell’uomo, il più dell’uomo stesso. Non è divina la ragione, secondo una bestemmia del pensiero moderno, ma lo è la verità che la illumina; e Dio non ha detto (come Aristotele ed Hegel) «Io sono la Ragione», ma «Io sono la Verità». L’uomo ha del divino, per dono di Dio; è il solo degli esseri che fruisca di questo privilegio, affinché testimoni di Lui in Sua lode. Questa intrinsecità teistica, per cui ogni atto spirituale è prova dell’esistenza di Dio (e dopo la Rivelazione del Dio cristiano), è la caratteristica precipua dello spiritualismo che è mio. Ritengo che sia il vero e solo idealismo, come anche il vero e solo umanesimo” [L’interiorità oggettiva, op. cit., p. 43].
“Morire di non morire”
Riprendiamo allora la ricerca della tracce teresiane nel filosofare di Sciacca ricorrendo al comune amico il compianto Caturelli. Si noteranno facilmente le consonanze tra lo scrivere del filosofo e quello della santa.
Sciacca ben inserisce la sua riflessione sulla persona, la coscienza e la loro immortalità (“il singolo è persona per lo spirito, individuo per il corpo; spirito è personalizzazione, corpo è individuazione”; “la sopravvivenza impersonale d’un’impersonale coscienza risulta ontologicamente assurda: si negherebbe l’essere della sua essenza”), nel mutamento cristiano, esperito e narrato da san Giovanni della Croce e Teresa d’Avila, della morte in vita, “tempo dell’elezione assoluta”. Conclude Caturelli: “Così la morte si cambia in vita e la Vita è il compimento del Tempo infinito dell’esistenza, sempre incompiuto nel tempo della prova. Il tempo esistenziale è il tempo dell’impeto d’amore, che è già elezione assoluta, e perciò Sciacca ricorda con partecipazione il «morire di non morire» di Santa Teresa” [Metafisica dell’integralità, op. cit., p. 372].
Traduzione mistica
Ma ascoltiamo direttamente lo Sciacca: “Dunque, la morte non è violenta perché interrompe l'autoporsi e l'autonegarsi dello spirito, ma perché lo spirito stesso, in ogni istante, desidera il compimento della vita per attuare quello non-vitale ed intemporale dell'esistenza. Se il corpo fisiologicamente potesse non morire, lo spirito, lo ucciderebbe, spezzerebbe la vita con la sua tensione. “Me muero de no morir” è la potente espressione di S. Teresa d’Avila in cui la nostra tesi è tradotta misticamente. Dialettica dell’implicanza anche qui: nel desiderare la morte conservando la vita, la tensione corpo-spirito non è data dall’esclusione di uno dei due termini o dalla risoluzione di uno nell’altro. L’integralità è compresenza di essi in tutta la loro positività, loro convergenza nel concreto della sintesi, non mero rapporto dialettico, che è negazione di entrambi: vivere amando la vita e perciò desiderando di non morire e contemporaneamente desiderare la morte per compire l’esistenza spirituale. Dunque, desiderare la morte senza mai darsela ed amare la vita di cui si desidera il compimento con la morte, per quello dello spirito oltre la morte stessa. E quando viene, accettarla come il bene sempre desiderato, in qualsiasi momento e circostanza, perché, in qualsiasi momento e circostanza, viene a compiere la prova. “Viva la muerte”, come dicono gli Spagnoli, affinché viva l’esistenza oltre la vita e la morte stessa. Lo “squilibrio” ontologico tra finito ed infinito è sanato dal colpo mortale della morte. È doloroso, perché il corpo è nostro e non un’aggiunta estrinseca; ma è necessario e conforme alla essenza e alle finalità umane. Ancora si ripresenta l’implicanza dialettica: tensione dello spirito (“muero de no morir”), desiderar di morire ma non voler morire; voler morire per il desiderio di esistere pienamente, ma ancora desiderio di essere questa pienezza nell’interezza del composto” [Morte e immortalità, Marzorati, Milano, 1963, p. 162s.].
Marta e Maria
Ricordiamo tutti quanto Teresa volesse che le sue comunità fossero case “di Marta e di Maria”. Questo tratto diviene segno di una ben più ampia visione di culture. Scrive Caturelli: “Il concetto cristiano di cultura presuppone […] da un lato il logos fondante, ossia «la verità prima dell’essere», e dall’altro, il Logos rivelato, che consente a tutto l’uomo di elevarsi all’altezza della Sapienza. Perciò la cultura cristiana è aristocratica, non nel senso classico di ciò che è riservato a pochi, ma di un ideale che tutti possono conseguire, ciascuno secondo la sua possibilità. Sciacca non perde occasione per ricordarci «che l’”ignorante” può essere più “colto” dello “stupido addottrinato”, la più semplice attività, se volta al miglioramento dell’uomo, è sempre educativa e perciò culturale, come la preghiera sincera dell’ultimo analfabeta, per forza di fede, può farlo più “saggio” e più “libero” di Aristotele» e naturalmente dell’intellettuale superbo; l’ideale cristiano di cultura è contemplativo, perché, a differenza dell’uomo greco, il cristiano, come Santa Teresa, opera contemplando e contempla operando” [Metafisica dell’integralità, op. cit., p. 498].
La suocera di Pietro
Scrive Caturelli: la morale cristiana “è morale di reciproco servizio sulla Roccia di Cristo ed è l’unico modo di essere giusti. Sciacca lo illustra con il piccolo episodio della cura della suocera di Pietro: Cristo ha servito e dunque la suocera di Pietro serve Cristo e gli altri; in questo modo Sciacca vuol mostrare che una vera imitazione di Cristo significa riprendere il senso delle piccole cose […]. Si tratta anche delle piccole azioni e delle persone ignorate, anonime per il mondo, intime per Dio. Quel che importa è dunque questo essere servo di tutti, il che implica il massimo distacco del mondo e il massimo impegno per le cose più insignificanti; come dice Sciacca esponendo la struttura della volontà: distacco da tutto e impegno per tutto, come tante volte avrà letto nelle pagine di Santa Teresa” [Metafisica dell’integralità, op. cit., p. 528].
Veglia, sonno e sogno
Afferma Sciacca: “Più la creatura resta sveglia e vigile al mondo più essa è confermata che al mondo stesso sta dormendo profondamente perché sveglia e vigile a Dio: in questa conferma è la sua piena disponibilità al creato e al Creatore, in essa splende la mistica speculativa del suo niente dal Nulla e del suo essere da Dio per tutto l’essere che le è dovuto. L’esperienza ontologica che l’uomo fa di se stesso a livello dell’Essere-Nulla in una compresenza dialettica e sintetica insieme, si fissa come contemplazione o puro amore di Dio e come espansione di servigio: il suo esistere nel mondo come servigio. Ma daccapo: per essere svegli al mondo fino a questo punto è necessario dormire al mondo stesso e vederlo come sogno in modo da potenziare il nostro servigio ad esso per la divina mania che ci tiene disponibili per Dio. Dormire al mondo per «tener altos pensamientos» che la contemplazione dell’Essere ispira, e vegliare al mondo stesso per fare che siano «alte» anche «las obras» [Cammino, 4,87]; e non vi sono alte opere senza alti pensieri. A questo livello qualsiasi opera di bene è “alta” anche la minima; accettare umilmente senza tirare avanti quelle che capitano, da buoni Samaritani, in modo da essere liberi e determinati per qualsiasi bene: è il vigore ontologico dell’ontologia triadica e trinitaria. Esistere senza esistere in noi, con tutto il nostro essere nel mondo immersi in Dio, consegnare a Lui le chiavi delle nostra volontà nel sonno, interruzione del nostro egoismo, prigionieri mendicanti dell’Essere, liberi dal «ridurci» a egoisti accattoni. E allora ogni possibilità, ogni virtù si attua, dice ancora S. Teresa, come “determinada determinación de no parar” [Ontologia triadica e trinitaria, Milano, Marzorati, 1972, p. 144s.].
Riconoscersi
Sembra dunque che l’amicizia tra Michele Federico e Teresa sia nata da una buona frequentazione e da un conseguente riconoscersi del filosofo, in alcune particolari esperienze e parole della Santa: “traduzione mistica”, come si esprime lo Sciacca, di alcuni suoi importanti temi e presupposti. Egli cominciava il discorso ed ella lo terminava; Teresa esprimeva la sua esperienza del Dio Verità e Michele Federico l’assumeva nel suo perenne filosofare.
E san Giovanni della Croce?
Abbiamo appena dato una piccola risposta ad una domanda, che speriamo presto di poter rivolgere a più profondi conoscitori di Sciacca, che subito non ci si apre una nuova porta che illumina nuovamente anche la prima domanda. Che cosa c’è in Sciacca che poteva piacere a Teresa ed in Teresa che doveva piacere a Sciacca? Guardiamo negli occhi Pier Paolo Ottonello (Genova, 1941), che ha aperto, ma restiamo sulla soglia. Per questa indagine ci sarà un altro tempo. Scrive infatti l’assistente e aiuto di Michele Federico Sciacca, in una nota all’introduzione delle Opere di San Giovanni della Croce, curata per la UTET nel 1993: “Cfr. Salita del Monte Carmelo, 1. II, c. 4, n. 5 e Cantico spirituale A, strofa 19. Riconosciamo in Sciacca il filosofo d’oggi più teoreticamente affine a Giovanni della Croce, per la sua antropologia metafisica, fondata sulla inscindibilità sostanziale di uomo e Dio, di metafisica e di teologia, nonché per il rilievo nel suo pensiero della dialettica di impegno e distacco; cfr. in particolare: M. F. SCIACCA, La libertà e il tempo, Milano, 1965 e Ontologia triadica e trinitaria, Milano, 1972 e P. P. OTTONELLO, La metafìsica integrale, nel suo volume Studi su Sciacca, Genova, 1992”.