“Le profondità dell’anima non si riempiono con meno dell’infinito”, ha scritto il Dottore Mistico, san Giovanni della Croce. Già questo ci dice quanto sia superficiale la pretesa di voler ottenere tutto in questa sola esistenza terrena, che va evidentemente consumandosi e restringendosi ad ogni giorno che passa. Questi anni e questo mondo sono troppo stretti per il nostro bisogno di felicità.

Se poi uno sospetta che il ricorso all’eternità sia una specie di aggiunta non proprio necessaria alla ricerca della felicità, può utilmente riflettere su questa sofferta testimonianza, data da Stig Dagerman, (una delle figure più rappresentative della letteratura svedese dell’immediato dopoguerra, morto suicida a soli 34 anni):

“Mi manca la fede e non potrò mai essere un uomo felice; perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa”.

Si tratta dunque di un’evidenza, perfino per chi non crede! Se non esiste un’altra vita, non esiste nemmeno la felicità. Ma se non esiste la felicità perché la desideriamo in maniera così spasmodica?

“Non si può essere così assetati, senza che esista l’acqua”, spiegava un convertito a un amico rimasto ancora sulla sponda del dubbio.

L’eternità (o “una vita che duri eternamente”) è condizione ineliminabile perché la creatura umana possa raggiungere davvero la felicità. E d’altra parte che senso avrebbe una vita eterna totalmente scollata e indipendente da questa vitaMa allora, come far sì che tutti i frammenti dell’esistenza si raccolgano alla fine nell’intero, tutti ben valorizzati per la sostanza d’amore che hanno portato in sé, anche se infinitesimale?

Chi può raccogliere i nostri frammenti nel Tutto? E chi può fare in modo che il Tutto sia già anticipato nei nostri frammenti? Noi sappiamo che c’è soltanto una strada percorribile: quella che ha legato il divino all’umano e l’umano al divino: non come due teorie, ma come due nature in una stessa persona: Gesù. 

Ecco allora il segreto: dobbiamo cercare in questa vita la strada che conduce alla felicità eterna e dobbiamo poter verificare che sia la strada giusta, pregustando già ora qualcosa, della pienezza che ci è stata promessa, nei singoli frammenti del nostro vivere.

Esattamente in questo consiste l’esperienza cristiana. O meglio ancora: l’esperienza cristiana consiste nel dare un Volto e un Nome non solo alla felicità, ma a tutto: alla vita, alla bontà, alla bellezza, all’unità, alla verità, all’eternità, all’infinito. Consiste nel dare “un Volto e un Nome” perfino alla strada che dobbiamo percorrere per raggiungere tutti quei beni.

Un Volto e un Nome

Il cristianesimo non è un insieme di dogmi da credere o di prescrizioni morali da seguire. Il cristianesimo non è una tradizione da seguire o una cultura da difendere. È anche questo, d’accordo. Ma è anzitutto una Persona cara, da conoscere e da amare: è un’amicizia da vivere. Il cristianesimo è abbracciare la Persona di Gesù che ci ama, che ci salva e che vuole essere riamata. Ed è anche l’unione viva e operosa (la comunione) tra tutti coloro che liberamente lo amano e lo seguono. E siamo noi, suoi discepoli, a dover garantire gli uni per gli altri – con la nostra umanità, con la nostra carne e il nostro sangue – che Gesù resti una persona viva e amata e non si tramuti mai in un’idea, un sentimento o un programma.

Egli ha “un Volto e un Nome” che i credenti continuano a contemplare e invocare per annunciarlo al mondo intero. Tra coloro che credono, la passione comune è quella di potersi aiutare nell’unica cosa necessaria: appartenerGli. Ecco perché le nostre “Tracce per un cammino” diventano, alla fine, una invocazione:

«Abbiamo bisogno di te, di te solo, e di nessun altro. Tu solamente, che ci ami, puoi sentire per noi tutti che soffriamo, la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande, il bisogno che c’è di te, in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun’ altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare, a noi bisognosi, riversi nell’atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell’anima, il bene che salva. Tutti hanno bisogno di te, anche quelli che non lo sanno, assai più di quelli che lo sanno. L’affamato s’immagina di cercare il pane e ha fame di te; l’assetato crede di voler l’acqua e ha sete di te; il malato s’illude di agognare la salute e il suo male è l’assenza di te.  Chi cerca la bellezza nel mondo cerca, senza accorgersene, te che sei la bellezza intera e perfetta; chi persegue nei pensieri la verità, desidera, senza volere, te che sei l’unica verità degna d’esser saputa; e chi s’affanna dietro la pace cerca te, sola pace dove possono riposare i cuori più inquieti. Essi ti chiamano senza sapere che ti chiamano e il loro grido è inesprimibilmente più doloroso del nostro» (G. Papini, Storia di Cristo, Vallecchi edit. 2007).