Ma presto le immagini cominciavano a riportare anche le file e file di automobili e di uomini a piedi che scappavano. Non potevamo pensare soltanto alla gente che scappava. Ci siamo anche domandati: noi che possiamo fare? Siamo un Paese di confine e già appaiono i rifugiati. Abbiamo un convento grande e attrezzato: dobbiamo muoverci, non possiamo più solo pregare, come già facevamo nelle nostre liturgie per la pace, dobbiamo agire. E così, come noi, anche i nostri amici del Villaggio dei Ragazzi, dove ci sono tre case con sei appartamenti che sono stati messi tutti a disposizione. In tanti amici, in particolare quelli legati alla comunità del Movimento Ecclesiale Carmelitano, che si sono messi al lavoro: pulizie, automobili, cucina, traduttrici, etc. ma anche viaggi fino al confine (4 ore di auto) a prendere i profughi bisognosi di assistenza. Una bella umanità, un brivido di speranza e di solidarietà.Una telefonata al P. Provinciale e si parte: era il 28 febbraio… I primi ad arrivare sono studenti stranieri che frequentavano università ucraine: devono tornare ai loro Paesi di origine (Marocco, Egitto, Kazakistan...).
Poi sono mamme ucraine (o di altre nazionalità) che sono fuggite con i bambini, qualche famiglia straniera che ritorna in patria con i figli. Hanno bisogno di un’accoglienza, di una pausa sicura, di un pasto caldo, di lavarsi, di dormire soprattutto (“Grazie! E’ la prima notte che dormo dopo cinque giorni!”). E questo offriamo, più poche parole, perché almeno noi frati abbiamo studiato latino, greco e un po’ di francese, mentre riusciamo a usare solo qualche parola di inglese…! Welcom God By. In fondo, però, ci si capisce: parla per tutti la piccola oasi di serenità che possiamo offrire e parla la loro riconoscente soddisfazione di averla trovata. Poi segue un gran lavoro di telefonate per coordinare, di automobili che portano alla stazione o all’aereoporto, di sveglie che ti chiamanonella notte per prendere qualcuno o portare qualche altro, di cucine che preparano e di pulizie che mettono in ordine, di medicine, di lavanderia, di ambasciate, etc.Si tratta di una ospitalità veloce, breve, ma necessaria perché almeno per ora tutti abbiano una destinazione chiara.Dall’Italia ci chiedono notizie e fotografie: si vuol sapere e vedere come è qui da noi, come si trovano, forse un sorriso di speranza o di riconoscenza. Ma i volti sono provati, preoccupati, a volte un po’ persi. Come facciamo a far loro una foto? Non abbiamo il cuore di farlo. Per rispetto. Per pudore…Hanno interrotto i loro studi, compromesso il loro futuro (i giovani), hanno lasciato il loro marito, il loro papà, la loro casa i loro amici, il lavoro e non sanno per quanto e se mai torneranno e se, tornando, si ritroveranno. Come quello di ogni uomo e di ogni donna, anche il loro cuore desiderava tutto: invece hanno perso molto, quasi tutto. Noi abbiamo messo a disposizione fuggevolmente qualcosa, perché sperino ancora. In Dio e, almeno un po’, ancora anche negli uomini…