Le prime parole in ebraico che mi capitano sotto gli occhi subito dopo l’atterraggio, mi avvertono di non dare nulla per scontato: “Attention – Sîm lev!”. Letteralmente: “Mettici il cuore!”. Una frase di uso comune, ma che mi ricorda subito le parole di Gesù: “Fate bene attenzione a come ascoltate… Là dov’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore”. Anche l’asettico “Welcome in Israel” qui diventa “Baruchim habbahim lizrael” – “Benedetti coloro che giungono in Israele”, quasi un’eco del Salmo 117 cantato dalla folla festante mentre Gesù entrava in Gerusalemme: “Baruch habba beshem Adonai” (“Benedetto colui che viene nel nome del Signore”). A tal punto il linguaggio biblico ha plasmato perfino le espressioni quotidiane dell’idioma moderno, conferendo loro uno spessore che non lascia indifferenti.
In fondo, non dobbiamo dimenticare che la prima “incarnazione” della Parola è avvenuta proprio qui, in questa lingua e in questa terra, molto tempo prima del Natale di Gesù Cristo – la “Parola definitiva del Padre, in cui Lui ci ha detto tutto in una volta sola” (S. Giovanni della Croce). L’elezione divina si intreccia inesorabilmente con le peculiarità della grammatica, della storia, delle usanze e della cultura di questo popolo insignificante e confinato alla periferia della Storia. Noi Carmelitani – nati proprio qui – dovremmo essere particolarmente sensibili a quest’evento misterioso e sentircene provocati. Santa Teresa di Lisieux confidava alle sua consorelle: “Se fossi stata sacerdote avrei imparato l’ebraico e il greco, non mi sarei accontentata del latino, così avrei conosciuto il vero testo, dettato dallo Spirito Santo” (Ultimi Colloqui, 4 agosto).
Ma perché Dio ha scelto di impostare la storia della salvezza, destinata a coinvolgere tutta l’umanità, proprio a partire da questa minuscola etnia? Non avrebbe potuto rivelarsi e comunicare il Suo messaggio passando attraverso una cultura o civiltà più evoluta e potente? Secondo i nostri criteri di efficienza le cose avrebbero dovuto andare diversamente, ma il profeta Isaia in questi giorni di Avvento ci ricorda che “le vie del Signore non sono le nostre vie, i suoi sentieri non i nostri”. La Bibbia stessa ci dà una chiave per comprendere questo “scandalo”, che ancor oggi sembra così “ingiusto” e sembra fatto apposta per suscitare vanità e sussiego da una parte, gelosie e rancori dall’altra: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore, tuo Dio: il Signore, tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri” (Dt 6,6-8). Da parte sua, un vero figlio d’Israele qual’era Paolo di Tarso riflette a lungo sull’argomento e scrive: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. (…) Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla,e farò grazia a chi vorrò farla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia” (Rom 9,2-5.14-16). L’elezione d’Israele rimane comunque una sfida lanciata a tutti coloro che vorrebbero liquidarla come un mito o una pericolosa pretesa umana: “Quel popolo, che Mosè ha formato, ha dimostrato d’avere, lungo i secoli, una sua mirabile e indistruttibile compattezza che ha resistito per tremila anni a tutte le vicissitudini storiche, a tutte le dispersioni geografiche, a tutti i mutamenti culturali, a tutte le contaminazioni con altri popoli e altre civiltà. Unico caso nella storia, e umanamente inspiegabile!” (Antonio M. Sicari).
Non è una cosa evidente per tutti. Proprio di questi giorni è la notizia, ripresa il 19 dicembre dal Jerusalem Post, dell’appello lanciato dal vice-presidente del Parlamento svedese, tale Björn Söder. Secondo costui, gli Ebrei svedesi devono abbandonare la loro identità religiosa per diventare “veri cittadini”, ed è importante distinguere tra “cittadinanza e nazionalità”. Il Consiglio delle Comunità Ebraiche in Svezia ha reagito affermando che tali dichiarazioni sono “identiche a quelle antisemite nella Germania degli anni ‘30”. Lo stesso giornale segnala inoltre che il ministro degli Esteri israeliano Liberman ha annunciato il suo rifiuto di incontrare prossimamente il suo omologo svedese in segno di protesta contro la decisione del Parlamento svedese di riconoscere unilateralmente uno stato palestinese. Sono notizie minori, ma che fanno riflettere.
Anche oggi Israele è sostenuto dalla fiera consapevolezza di essere un “popolo diverso”, tanto che esistono due termini distinti per definirsi rispetto al resto del mondo: Israele è l’unico ham (popolo), tutti gli altri sono goîm (le nazioni, i pagani). E anche se il riferimento esplicito alla fede tocca solo una minima percentuale degli Ebrei, perfino nella laica e cosmopolita città di Haifa – 300.000 abitanti e una zona industriale immensa (un proverbio insinua non senza malizia: “Ad Haifa si lavora, a Tel Aviv ci si diverte, a Gerusalemme si prega”…) – nel giorno di sabato tutto si ferma e le strade sono deserte.
Allo stesso modo, Israele rivendica con determinazione il diritto esclusivo alla terra che fu promessa ai Patriarchi e i cui confini furono definiti da Davide e Salomone. E non importa se queste ragioni sono spesso strumentalizzate da strategie che non hanno molto a che vedere il Dio di Abramo. Chi non conosce le tensioni create dall’espansione delle colonie ebraiche? E chi non ha mai sentito parlare della “barriera di separazione israeliana”? Un alto muro di cemento, con filo spinato, sensori e posti di blocco, che circonda completamente le zone palestinesi. Agli oltre 700 km di muro previsti dal progetto, si aggiungono altri 260 km eretti nel deserto a tempo di record per sigillare la frontiera con l’Egitto. La costruzione di questo “ghetto al rovescio” viene giustificata da esigenze di sicurezza, per impedire attacchi suicidi e l’infiltrazione di terroristi e immigrati clandestini. Ma è evidente che ha anche lo scopo di umiliare ogni velleità di reale autonomia. Perfino i pozzi d’acqua destinati all’agricoltura palestinese sono stati mantenuti sotto il controllo israeliano. Viene in mente quella pagina dell’Esodo, in cui si dice che gli Egiziani “resero amara la vita” agli schiavi (ebrei)… Quando scende la sera e si contano gli innumerevoli minareti illuminati di verde (il colore dell’Islam) svettanti sulle zone accerchiate si pensa, con inquietudine, quanto la sfida per una vera convivenza pacifica sia ancora tutta da vincere. A tutto questo si aggiunge una lotta fatta di decreti ed espropri, pressioni e intralci amministrativi, con i quali lo Stato ebraico cerca di erodere le proprietà private e di acquisire il controllo di quanto più territorio possibile. Anche le diverse Chiese cristiane devono fare i conti con questa politica aggressiva.
Certo, più osservi da vicino, meno ti senti capace di giudicare una storia così complessa, marcata da memorie e (iper)sensibilità dalle radici profonde. Chi vive qui da molto tempo ci diffida dal formulare giudizi affrettati e univoci, perché dar ragione a una parte significa inevitabilmente “mettersi contro” l’altra, acuendo ulteriormente i conflitti e le incomprensioni. Quando si discute, è più saggio limitarsi a “constatare” insieme gli eventi così come tutti li possono vedere. Il resto verrà, con tempi e modi che non sono i nostri. Non si tratta di codardia o mimetismo: anche questo può essere un antidoto alla violenza, una forma di umile fraternità e un modo di ascoltare ciò che abita il cuore impaurito e ferito – e tuttavia palpitante come il tuo – dell’uomo che sta di fronte a te: “Sîm lev!”.