di Giuseppe Reguzzoni

Il monito di Papa Francesco
«Per quanto tempo dovrà soffrire ancora il Medio Oriente per la mancanza di pace?». È la domanda che papa Francesco si è posto nella sua lettera indirizzata ai Cristiani di quella tormentata regione. Il Medio Oriente è in croce, e l’Occidente ha in questo delle pesanti responsabilità. A nessuno di noi è lecito lasciare soli questi fratelli nella sofferenza. «Non possiamo rassegnarci ai conflitti». È questo l’invito pressante del Pontefice. Pregare, certo, ma declinando la preghiera in solidarietà e consapevolezza: questo è il compito accessibile a ciascuno di noi, e non solo ai responsabili delle nazioni. Aiuta anche noi ascoltare il grido di coloro che «sono stati cacciati in maniera brutale dalle proprie terre». È un grido tragico, che ci chiede di aprire gli occhi. Tra le testimonianze più realistiche e più profonde di questa sofferenza dei Cristiani del Medio Oriente rientra certamente un volume di recente pubblicazione: Anderious Oraha – Fausto Rizzotti, Una storia irachena, Vita di uno stringer cristiano in Medio Oriente, XY Editore, 175 p., 18 Eur. Lo si legge come un romanzo, ma è tutta vita vissuta, con, in più, pagine straordinarie di comprensione della cultura irachena.

Una antica presenza
Le vicende che vi sono narrate iniziano molto lontano, dai ricordi di una famiglia di Cristiani di rito assiro, nelle terre del Tigri e dell’Eufrate, tanto ricche di storia e di richiami biblici. Al princpio ci sono la riconoscenza e la memoria, di uno straordinario patrimonio di affetti, di gesti semplici e rituali e, certo, anche di una povertà materiale vissuta con dignità e riconoscenza. “Ti ringrazio, Signore, d’avermi creato, fatto cristiano …” E non è semplice essere minoranza cristiana in una terra dove l’Islam è maggioranza. È una fede antica, che si coniuga con una lingua antica: l’aramaico, la lingua di Gesù, che si accompagna all’arabo dei popoli che dal secolo VIII dominano queste terre. Poi, il presente, tragicamente duro e incerto. Anch’esso, a suo modo, segnato da simboli che, questa volta, esprimono violenza e intolleranza: è la violenza dei bombardamenti americani; è la nascita di forme di integralismo religioso sino ad allora mai così radicali; è la guerra nella guerra, contro la presenza secolare delle comunità cristiane.

Vivere dentro la guerra
Ed è anche il sibilo, ormai tragicamente familiare, di un colpo di mortaio, un’esplosione nel giardino di casa, i vetri che vanno in frantumi. 31 gennaio 2005, Sadr City, Bagdad. «Un tiro più corto di due metri, due insignificanti metri, e saremmo tutti morti». Quotidianità a Bagdad, che l’importazione della democrazia occidentale ha aggravato. All’esplosione segue, come da prassi ordinaria in quella martoriata città, l’irruzione dei soldati americani, per “controllare” l’accaduto, e la rabbia, tanta rabbia per una vita che la grande storia, quella dei potenti che decidono del nostro destino ha deciso di cambiare, in peggio. Cominciano così le prime partenze: «La guerra civile tra sunniti e sciiti era divenuta così feroce, la vita così pericolosa che mio fratello Lazar, il pilastro della nostra famiglia, gettò la spugna e con la moglie e il figlio Mark emigrò in Siria; mio fratello Butrus lasciò Bagdad e si rifugiò a Shekan, nel nord, e così fecero le mie sorelle Amira e Samira. Un anno dopo anche mio fratello Koshaba lasciò l’Iraq. Chi non conosce il modo di vita orientale non può capire il dolore, la lacerazione di queste separazioni; contrastano con i nostri valori, le nostre abitudini, il nostro senso di appartenenza e di sicurezza. Ma come dar torto a chi decideva di partire se anche starsene a letto era diventato un azzardo?». 
Sono le parole con cui Anderious Oraha, nel suo racconto autobiografico, scritto con Martino Fausto Rizzotti, giornalista e cooperatore per lo sviluppo, ricorda il dramma della diaspora della sua famiglia, doppiamente colpita, dalla guerra e dall’odio anticristiano nell’Iraq di oggi.

Andraus, come lo conoscono e lo chiamano i principali corrispondenti di guerra italiani, la guerra la conosce molto da vicino. È stato quattordici anni in servizio militare, ha combattuto il conflitto tra Iraq e Iran e ha vissuto le due guerre del golfo, lavorando, nel corso di queste ultime, prima con la Croce Rossa, poi come “stringer”, vale a dire come interprete e come contatto con la realtà locale per la stampa e le troupes televisive italiane presenti in Iraq. Era presente, con loro, a Fallujah e a Nassiriya, ha visto il sangue, le vittime, incontrato capi locali e ufficiali della coalizione occidentale, ha sentito dal vivo le dichiarazioni degli sceicchi e percepito la rabbia e l’odio contro gli invasori americani e i loro alleati e nel testo ricorda particolari di quei fatti tragici su cui, oggi, è urgente aprire gli occhi. Era presente a Bagdad durante tutta la guerra civile, coltivando contatti preziosi e conducendo trattative che gli hanno permesso di salvare molte vite. Era il loro occhio e il loro orecchio nella città, quando i giornalisti occidentali vivevano barricati negli hotel superprotetti, della zona di sicurezza. Non a caso il suo volume esce con prefazione di Giovanni Porzio (Panorama) e con testimonianze di Fausto Biloslavo (Il Giornale), Toni Capuozzo (TG5), Meo Ponte (Repubblica), Battistini (Corriere della Sera), Guido Alfieri (Il Messaggero), Massimo Dell’Omo (Repubblica).

È stato uno di loro, Giovanni Porzio, ad aiutarlo a fuggire, prima in Siria, poi in Italia, quando la sua famiglia, cristiano caldea, ha subito la fatwa degli estremisti islamici del suo quartiere di Bagdad. Anche oggi, da qui, Andraus ha più che mai vivo il senso della sua appartenenza al destino delle comunità cristiane irachene. Lo ricorda nelle pagine, drammatiche, che chiudono il suo racconto: «Mentre scrivo, il mio telefono squilla in continuazione, sono i miei parenti e quelli di mia moglie, rimasti in Iraq. Sono disperati, la loro paura mi attraversa come una scarica elettrica (...) Mia moglie ha il viso rigato di lacrime, gli occhi un pozzo di dolore mentre mi guarda disperata; è suo cugino che parla al telefono, io le stringo la mano ma sento che la mia stretta non è salda, perché la mia mano trema, come sento tremare la mia anima. Fra un crepitio di mitragliatrice e l’altro, ci racconta che alcuni nostri parenti sono scappati in Kurdistan (...), fuggono, gli hanno detto “convertitevi e sarete risparmiati”. “Ma come possiamo rinnegare il nostro Dio, Andraus? Cosa ci resterebbe, poi?”».

Per non dimenticare
Questo libro è più che un’autobiografia, intriso com’è della fede solida e del senso di appartenenza dei cristiani iracheni. Sempre oggettivo nelle sue narrazioni di quelle condizioni drammatiche, esso è soprattutto una profonda testimonianza di vita e di senso della vita, in circostanze disperate; un po’ come per Meo Ponte, che nella sua postfazione (“Andraus mi ha salvato la vita due volte”), ricorda il rapporto che si era instaurato con l’autore: «Più che un interprete è stato per me un collega e un amico, una guida che mi ha fatto conoscere la realtà irachena nel profondo, un amico che mi ha dato sostegno anche nei momenti più difficili». Anche questo libro riesce a essere una guida, come si dice, “dal di dentro”, con uno sguardo sulla propria storia, onesto, realistico, ma mai lamentoso, e con la capacità di gettare una luce nuova sulla situazione dell’Iraq di oggi, sulle cause della guerra e sulle responsabilità dell’Occidente, sulla condizione dei Cristiani e sulla loro straordinaria storia di cultura e di civiltà. Leggerlo significa ascoltare questa testimonianza di vita e imparare a giudicare gli eventi che, oggi, sono sulle prime pagine dei media, con uno sguardo non omologato alle versioni “ufficiali” dei fatti e, per riprendere le parole di papa Francesco, significa anche «non rassegnarsi ai conflitti».