di F. Iacopo Iadarola ocd
8° tappa: Gerusalemme-Betlemme
“Canto delle salite. Di Davide. Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore!». Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città unita e compatta” (Sal 123(122),1-3). Ognuno di noi pellegrini, credo, ha nel cuore questi versetti quando, lasciando Betania alle nostre spalle, “i nostri piedi si fermano” al check-point per entrare in Gerusalemme: soliti tristi controlli a bordo dell’autobus. Ma questi non smorzano l’emozione, e nemmeno il maltempo in cui incappiamo, quando scendiamo al capolinea nel cuore di Gerusalemme, e possiamo dire pace…ci aspetta l’ostello di Maria Bambina, dei Francescani, dove finalmente troviamo dei letti e una sistemazione un po’ più comoda di quella vissuta nei giorni precedenti. Quest’ostello è nel quartiere cristiano, appena dentro le imponenti mura di Solimano, a due metri dal quartiere arabo e a cinque minuti a piedi dal Santo Sepolcro. Dal terrazzo dell’edificio possiamo vederne la cupola a un tiro di sasso. Nonostante la stanchezza siamo tutti troppo curiosi e ci tuffiamo nelle viscere della Città vecchia di Gerusalemme.
Il suk del quartiere arabo, giustapposto a quello cristiano è proprio un…suk, come lo si potrebbe immaginare: viuzze strette tutte stipate di negozi che spaparanzano le loro merci tutte intorno, sfruttando ogni centimetro possibile…fra queste e la calca della gente riescono miracolosamente a incastrarsi anche tavolini e sedioline con persone che bevono caffè turco o fumano narghilè, tanto pittoreschi quanto le stupende composizioni artistiche di spezie, incensi, dolciumi…anche gli animali si incuneano in questo arabesco urbano con molta disinvoltura, e ridiamo tutti a crepapelle nel vedere un gatto comodamente appollaiato a lato del grill di un kebab, aspettando sornione che i pezzi di carne arrivano alla sua bocca mossi dal disco rotante.
Ma rientriamo subito in ostello, dedicheremo a Gerusalemme un intero giorno di visita. Prima ci aspetta Betlemme!
Betlemme – Basilica della Natività
L’indomani il tempo è un po’ migliorato ma indossiamo comunque le nostre giacche a vento: veramente stridente il contrasto tra il caldo quasi tropicale di Gerico e il fresco alpino di Gerusalemme, i 1000 metri di dislivello si sentono eccome! Direzione: Betlemme. Prima di contemplare i luoghi degli ultimi giorni di Gesù su questa terra, è giusto cominciare dall’inizio – come fa la sapiente teologia dell’icona, per cui la grotta della natività è raffigurata quasi identica alla grotta del sepolcro, e nel buio di entrambe spiccano le fasce con cui Gesù fu avvolto. Ci arriviamo in autobus, dopo gli ennesimi controlli e il passaggio del famigerato muro. La Basilica della Natività, patrimonio mondiale dell’Unesco, è attualmente in fase di restauro, e al suo interno campeggia una selva di impalcature. Siamo incanalati in una folla di pellegrini ortodossi, russi per lo più, anche se la Basilica è retta dalla Chiesa greco-ortodossa (mentre i francescani gestiscono parte della Grotta della Natività, su cui è edificata la Basilica): il flusso di pellegrini ci spinge lentamente verso una piccolissima apertura, che costituisce l’ingresso alla Grotta. Benedetto XVI, nell’omelia del Santo Natale del 2011, ne fece una stupenda descrizione: “Chi oggi vuole entrare nella chiesa della Natività di Gesù a Betlemme scopre che il portale, che un tempo era alto cinque metri e mezzo e attraverso il quale gli imperatori e i califfi entravano nell’edificio, è stato in gran parte murato. È rimasta soltanto una bassa apertura di un metro e mezzo. L’intenzione era probabilmente di proteggere meglio la chiesa contro eventuali assalti, ma soprattutto di evitare che si entrasse a cavallo nella casa di Dio. Chi desidera entrare nel luogo della nascita di Gesù, deve chinarsi. Mi sembra che in ciò si manifesti una verità più profonda, dalla quale vogliamo lasciarci toccare in questa Notte santa: se vogliamo trovare il Dio apparso quale bambino, allora dobbiamo scendere dal cavallo della nostra ragione “illuminata”. Dobbiamo deporre le nostre false certezze, la nostra superbia intellettuale, che ci impedisce di percepire la vicinanza di Dio.”
Dentro la Grotta, scesi i gradini, la fiumana dei pellegrini si serra in silenzio, e possiamo tutti baciare la roccia sopra la quale è scritto, su una stella d’argento posta dai francescani nel 1690, Hic de Virgine Maria Iesus Chistus natus est.
Usciti dalla Basilica, sul piazzale antistante ci soffermiamo a vedere dei cartelloni posti dall’Autorità palestinese, sotto l’egida della quale è Betlemme. Tramite alcune semplici cartine mostrano come dal dopoguerra a oggi il territorio sotto il controllo israeliano si sia esteso a macchia d’olio, a scapito di quello controllato dai palestinesi, che è oggi ridotto a poche macchie di leopardo nella West Bank più la striscia di Gaza: è palese quella che pare un’inesorabile tendenza verso la sua scomparsa.
Ammiro allora ancor più il coraggio del Vaticano che proprio qualche giorno fa (il 13 maggio) ha dichiarato ufficialmente conclusi i negoziati con le autorità palestinesi, in vista di prossimi accordi bilaterali fra la Stato del Vaticano e lo Stato di Palestina: pienamente riconosciuto come Stato, quindi, e questo non da ieri. Ovvio che gli israeliani si siano dichiarati molto “delusi” da questo ulteriore riconoscimento di uno Stato che essi sono lungi dal voler riconoscere. Non ho certo la competenza e l’esperienza per valutare questo tipo di scelte di delicatissima diplomazia, ma non posso non pensare all’empatia e al legame che c’è fra questo Stato palestinese, sempre più minuscolo, smangiucchiato e misconosciuto - e in cui vivono tanti cristiani arabi - e quella porta della Grotta della Natività, che si è sempre più rimpicciolita nel corso dei secoli - e oltre le quale è nato il Cristo. In una recente intervista sull’Avvenire (25 maggio), il Cardinal Segretario di Stato Parolin ha citato la nostra Santa Madre Teresa, (“la paciencia todo lo alcanza - la pazienza raggiunge tutto, ottiene tutto”) proprio per spiegare per quali motivi la Santa Sede attende paziente la sviluppo anche delle più piccole opportunità di bene: “A me sembra che la diplomazia abbia uno stile, una caratteristica particolare e noi la accettiamo perché crediamo sia utile alla missione della Chiesa. Non è solo uno strumento per tutelare la Chiesa o i suoi privilegi, come una volta si diceva, ma anche per diffondere il Regno di Dio. È importante tenere una porta aperta con tutti, anche se può costare a volte, rispetto a una testimonianza più diretta: ma è importante che noi non interrompiamo la conversazione con nessuno”.
In un’altra omelia invece, tenuta proprio qui a Betlemme durante il suo pellegrinaggio nel 2009, Benedetto XVI ricordava che se questa porta della grotta di Betlemme nel corso dei secoli è diventata sempre più piccola, la porta che introduce al mistero della dimora di Dio tra gli uomini, l’anticipo di un mondo di perenne pace e gioia, dove aprirsi sempre più ampiamente per accogliere ogni cuore umano e rinnovarlo e trasformarlo: “In questo modo, Betlemme continuerà a farsi eco del messaggio affidato ai pastori, a noi, all’intera umanità: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama!” E sulla scia di queste parole andiamo, pedibus calcantibus, a visitare proprio le grotte di questi pastori, a qualche chilometro dalla Basilica, dove la Custodia di Terra Santa fece edificare una caratteristica Chiesa a forma di tenda dal consueto Barluzzi. Ma siccome era occupata, noi celebriamo all’aperto, proprio sotto il cielo dove gli umili pastori videro gli angeli cantare, e con gioia grande, come loro, corriamo a comunicarci a quel piccolo corpo di Cristo, rinato per noi sull’altare.
Carmelo di Gesù Bambino
Ciò che ho appena scritto, sull’eucarestia come “prolungamento dell’incarnazione” (Leone XIII lo spiega teologicamente nella sua enciclica Mirae caritatis) S. Maria di Gesù Crocifisso lo visse, come tutti i grandi mistici, con evidenza palmare: “Il sabato della prima settimana di Quaresima, malgrado le sue vive sofferenze, suor Maria chiese ed ottenne di essere trasportata nel coro, al fine di potersi comunicare. Vide due angeli che assistevano il sacerdote sull'altare. Nostro Signore le apparve sopra il calice, sotto le sembianze di un incantevole bambino. Con le sue piccole mani, benediceva le suore. Tutto ad un tratto, lo vide crescere fino a prendere la statura di un uomo: si offriva al Padre per le anime. Questa visione la rese felice; avrebbe voluto tuttavia capire come Gesù fosse allo stesso tempo in cielo e dovunque vi fossero ostie consacrate: Che questo mistero non ti stupisca, le disse il Signore, la luce naturale non è dappertutto contemporaneamente? E perché l'Autore della luce non potrebbe essere, con il suo Sacramento, contemporaneamente in diversi luoghi?” Quest’aneddoto ripreso da una sua biografia è solo un piccolo assaggio delle mille e mille grazie mistiche che il Cielo riversò su questa monaca araba appena canonizzata, Mariam Baouardy, gloria del Carmelo in Terra Santa: come ebbe a dire il cardinal Mercier, arcivescovo di Malines, "una fra le più straordinarie vite dei santi che si possa trovare nell'agiografia cattolica". Ma al di là dei fenomeni mistici e delle stigmate, che pure ebbe per anni e che ben le meritarono il suo nome religioso, la sua grandezza è consistita proprio nel riconoscersi sempre una semplice "contadinotta"..."io, piccola polvere!", come soleva ripetere. In effetti il suo cognome, Baouardy, viene proprio dal mestiere del padre, umile fabbricante di polveri da sparo (come abbiamo già scritto sulle pagine di questo sito, dove facciamo una piccolissima presentazione della santa). Un’altra grazia mistica che ricevette fu proprio quella di farsi portavoce della volontà del Signore di costruire un Carmelo in Betlemme, “sulla culla di mio padre Davide” come le disse, sul colle dove Davide pascolava le sue pecorelle, suggerendole addirittura la pianta dell’edificio: che, infatti, è particolarissima e del tutto atipica: circolare, come a ricordare una turris davidica. Abbiamo la fortuna di visitare questo monastero in cui la santa carmelitana visse i suoi ultimi anni, ma purtroppo non possiamo incontrarci con le monache in quanto la priora è assente, in viaggio per Roma dove fervevano i preparativi per la canonizzazione (che è avvenuta il 17 maggio). Mi dispiace moltissimo, anche perché se la priora fosse stata presente avremmo potuto visitare parte della clausura e il famoso giardino dove S. Mariam fu sorpresa più volte a levitare sugli alberi: a levitare, sì, proprio come una santa da medioevo. Ma se questi miracoli oggi quasi danno fastidio alla nostra “ragione illuminata” (come diceva sopra Benedetto XVI, e ciò vale anche per noi cristiani!), in questo giardino S. Maria di Gesù Crocifisso compì anche miracoli più umili, come il miracolo quotidiano dell’amore per il prossimo, che passa inosservato, e pur conduce in Paradiso: portando delle brocche d’acqua fresca agli operai che stavano edificando il monastero, cadde da una scala e le andò in cancrena una gamba. Quel male l’avrebbe portata in breve alla morte, a 33 anni, nel 1878. Per “la piccola araba”, come veniva chiamata, si sarebbero subito levate le voci della popolazione, cristiana e musulmana, all’unisono: “la Santa è morta! La Santa è morta!”. E, ancora una volta, Dio lo si sarebbe visto nella piccolezza.
(per leggere i resoconti delle altre tappe clicca qui)
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