di P. Iacopo Iadarola ocd
Le origini di una lieta ricorrenza
“Rallegrati Gerusalemme, e voi tutti che l'amate, riunitevi. Esultate e gioie, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell'abbondanza della vostra consolazione!” (Is 66,10-11)
Ecco l'appello esultante del Profeta che canteremo con l'Antifona d'Ingresso di Domenica prossima, IV di Quaresima, detta Domenica Laetare proprio dalla traduzione latina del primo verbo dei versetti appena citati. Versetti che ci introducono al cuore della pedagogia quaresimale, con cui la liturgia da molti giorni ormai ci sta conducendo per mano verso la patria pasquale. Riassumono perfettamente, infatti, quella che nella tradizione bizantina1 - da cui si origina proprio la Domenica Laetare - viene chiamata “radiosa tristezza” o “gioioso dolore” (in greco è l’unico vocabolo charmolýpe, coniato da S. Giovanni Climaco2), quella profonda attitudine mistica che la Santa Quaresima vuole coltivare nei nostri cuori.
Ovvero: guai a noi se pensassimo alla Quaresima che stiamo attraversando come ad un deserto arido e senza vita, dove soffrire con prove agonistiche per meritarci la gioia pasquale! La Quaresima è già Pasqua e non ancora, tempo di grazia in cui comprendiamo una realtà fondamentale per la nostra vita di fedeli: il Paradiso non è una mèta lontana da relegare alla fine dei tempi, ma qualcosa che pregustiamo sin da ora in questa valle di lacrime! La radiosa tristezza educa il nostro occhio a questo, a vedere la Croce come ciò che si delinea su una gemma affinché essa sbocci; a vedere il nemico acerrimo come un possibile amato; a vedere i digiuni, le elemosine e altre spoliazioni come lo svestirsi degli amanti prima di conoscersi: ”illumina, o croce del Signore, con i bagliori dardeggianti della tua grazia, i cuori di quanti ti onorano e di quanti a te si stringono con amore ispirato, o desiderio dell’universo: per te è stata cancellata la tristezza delle lacrime, e noi siamo stati strappati ai lacci della morte e trasferiti alla letizia senza fine; mostra lo splendore della tua nobiltà, elargendo le ricompense della continenza ai tuoi servi che chiedono con fede la tua munifica protezione e la grande misericordia”.
Così cantano i greco-cattolici nella Domenica dell’Adorazione della Croce a metà Quaresima, Domenica che è a monte della nostra Domenica Laetare, la cui stazione quaresimale, in Roma, è per l’appunto la Basilica di S. Croce in Gerusalemme. È in questa basilica che si sarebbe successivamente instaurata la tradizione della benedizione papale della rosa d’oro, cui i paramenti rosacei di questa Domenica fanno eco, sostituendo quelli violacei. E anche in questo caso, in consonanza con lo spirito della radiosa tristezza, la rosa ci ricorda che il fiore più bello è proprio quello colto fra le spine…
No: tutte queste non sono trovate poetiche, ma patrimonio liturgico e teologico millenario, e su cui la Quaresima, specialmente nell'anno B, insiste con veemenza.
Il cammino percorso
Ricordiamo da dove siamo partiti: nella I Domenica (Mc 1,12-25) chiaramente Gesù ci ha fatto vedere come è nel deserto che può rifiorire l'Eden, dove gli animali selvatici sono in armonia con l'uomo e gli angeli non sono più a sbarrare l'ingresso ad Adamo, ma servono il nuovo Adamo! Il deserto di Giuda può trasformarsi allora nel deserto di Osea, dove gli amanti si riconciliano (Os 2,16-22), o anche del Cantico dei Cantici, dove il deserto diventa luogo di ascesi e di ascesa, quando lo Sposo corre incontro alla Sposa:
Chi sta salendo dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d'incenso e d'ogni polvere di mercanti? (Ct 3,6)
E viceversa:
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l'amore, finché non lo desideri. Chi sta salendo dal deserto, appoggiata al suo amato? Sotto il melo ti ho svegliato.. (Ct 8,4-5b)
Nella II Domenica, poi, abbiamo visto balenare – si noti bene, nella nube ombrosa - la luce del Cristo Trasfigurato, e abbiamo udito il primo preannunzio della Passione e Risurrezione.
Annunzio ribadito dal Signore nella III Domenica, quando con la frusta di cordicelle con cui ha scacciato i venditori dal tempio ha alluso ai colpi di flagello che avrebbe ricevuto sul corpo, e ci ha parlato del Tempio ricostruito in tre giorni, alludendo alla propria Risurrezione.
Annunzio che verrà nuovamente rievocato Domenica prossima, quando - nel cuore della notte - Gesù parlerà a Nicodemo del serpente innalzato nel deserto (Gv 3,14). La Risurrezione dunque non ci lascia per un passo in questo esodo quaresimale, in cui procediamo nutriti ogni giorno dalla manna eucaristica e della Parola...guai a noi allora se mormoriamo nel deserto, se lo vediamo come luogo di desolazione in cui siamo abbandonati da Dio: allora sì che moriremo, come successe al popolo di Israele morso nel deserto dai serpenti brucianti (Nm 21,4-9). Ma Gesù ci ricorda quello che fece Mosè per salvare gli israeliti da una simile disgrazia: innalza un serpente di bronzo su un’asta, affinché chiunque lo guardi rimanga in vita. Lo stesso, insisterà Gesù questa Domenica, avverrà per chi crederà in Lui, quando sarà innalzato sulla Croce, “perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,15-16).
Dio, artista geniale
Di nuovo, constatiamo con stupore come la mistagogia della Quaresima ci mostri ripetutamente le meraviglie di un Dio che come un geniale artista riesce a trasformare quel che c'è di più negativo nel suo contrario: il deserto in Eden, il serpente omicida in segno di salvezza, le tenebre in luce (Gv 3,14-21: Vangelo di questa Domenica), i morti in vivi (Ef 2,4-10, II lettura di questa Domenica), un despota pagano in Messia liberatore (Ciro nella I lettura, 2Cr 36,14-23; cf. Is 45,1 in cui Ciro è chiamato christòs - eletto del Signore!): questo è il significato profondo del viola che si trasforma in rosa, questo è il senso della radiosa tristezza, l'ossimoro sconcertante che siamo chiamati a vivere in questo “tempo favorevole”, in questa “primavera dello Spirito” che è il cammino quaresimale, come ci ricordano i libri liturgici (e il libro della natura: anche i mandorli in sboccio indosseranno i paramenti rosacei in questi giorni!), esortandoci a bene intendere la Quaresima come cammino di dispendio innamorato, e non di mera mortificazione. Premuniamoci allora da questo fraintendimento fatale pregando, sempre più innamorati, la preghiera di colletta di Domenica prossima: “Dio buono e fedele, che mai ti stanchi di richiamare gli erranti a vera conversione e nel tuo Figlio innalzato nella croce ci guarisci dai morsi del maligno, donaci la ricchezza della tua grazia, perché rinnovati nello Spirito possiamo corrispondere al tuo eterno e sconfinato amore”. Preghiera che richiama puntualmente la II lettura scelta dalla liturgia (Ef 2,4: “Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato”) recuperandone l’esuberanza dell’originale testo latino: propter nimiam caritatem suam qua dilexit nos – per il troppo amore con cui ci ha amato…
Elisabetta della Trinità e il troppo amore di Dio
Ed è quello appena citato un versetto molto caro al Carmelo e a uno dei suoi fiori più belli, Elisabetta della Trinità, che eleggiamo come rosa d’oro di questa nostra Domenica Laetare. Ella, infatti, citò il versetto di Efesini decine di volte nei suoi scritti, arrivando a dire: “Vedi, c’è una parola di S. Paolo che è come il riassunto della mia vita e che si potrebbe scrivere su ciascuno dei suoi momenti: «propter nimiam caritatem». Sì, tutto questo torrente di grazie dimostra che «mi ha troppo amato». Mamma cara, amiamolo, viviamo con lui, come un essere amato da cui non ci si può separare” (lettera 244 3). E facciamoci insegnare da lei, allora, come guardare al serpente di bronzo, al crocifisso innalzato per la nostra salvezza, trasalendo come lei di gioia: “Cara sorellina, perdiamoci in questa Trinità Santa, nel Dio tutto amore, lasciamoci trasportare in quelle regioni dove non c’è più che lui, lui solo! Mi capisci, vero? Il mio cuore è traboccante e non riesco a dire nulla, ma tu sai leggere al di là delle parole! Prega, cara sorella, prega perché siamo sante e sappiamo amarlo di quell’amore di cui sapevano amare i santi. Rimaniamo unite sempre ai piedi della croce, immobili e silenziose presso il divino Crocifisso ad ascoltarlo e penetrare tutti i suoi segreti. Ci svelerà tutto, è lui che ci condurrà al Padre, a colui «che ci ha tanto amato da donarci il Suo Unigenito» (lettera 51). E viviamo, infine, quel che resta di questo tempo liturgico sulla scia della santa letizia della nostra monaca carmelitana, rileggendo queste parole e immaginandole come a noi personalmente rivolte: “Ho passato una bellissima Quaresima. Di tutto quello che ho visto al Carmelo niente è più bello della Settimana Santa e del giorno di Pasqua. Direi anche che è qualche cosa di «unico». Te lo racconterò quando ci vedremo. Quanto si è felici quando si vive nell’intimità col buon Dio, quando si fa della propria vita un cuore a cuore con Lui, un continuo scambio d’amore, quando si sa trovare il Maestro in fondo alla propria anima. Allora non si è più soli mai, si sente il bisogno di solitudine per gioire della presenza dell’Ospite adorato. Vedi, bisogna darGli il posto che Gli spetta nella nostra vita: nel tuo cuore ch’Egli ha fatto così amante, così appassionato. Se tu sapessi com’è buono, com’è tutto amore! Io Gli chiedo di rivelarsi alla tua anima, di essere l’amico che sai sempre trovare. Allora tutto s’illumina ed è così bello vivere! Ma non voglio farti la predica…è la piena della mia anima che si riversa nella tua perché possiamo perderci insieme in colui che ci ama – come dice S. Paolo - «d’un troppo grande amore»…” (lettera 136).
Note:
1 Tradizione che non è patrimonio esclusivo delle chiese ortodosse, ma pienamente cattolica perché risalante a secoli prima della Scisma e perché ereditata in varie forme e vissuta a tutt'oggi da numerosissimi cristiani cattolici dell'Est Europa, del Medio Oriente e, più vicini a noi, dell'antica Chiesa italo-albanese presente nel meridione d'Italia con ben due diocesi.
2 Questo grande santo (monaco nel monastero di S. Caterina del Sinai nel VII secolo, nel calendario liturgico è ricordato il 30 marzo), punto di riferimento per ogni tradizione monastica, orientale e occidentale, nel settimo scalino della sua Scala del Paradiso parla anche di charopoiòn pènthos - "sofferenza che crea gioia". Cf. nel rito romano la bellissima orazione di colletta dell'antica messa votiva Ad petendam compunctionem cordis, citata da Papa Francesco in più occasioni (nell'incontro coi sacerdoti della diocesi di Roma, e nell'intervista di ritorno da Manila), che è a tutt'oggi presente nell'ultima edizione del Missale Romanum del 2002 (tra le messe Ad diversa, n° 38: Pro remissione peccatorum, formulario B aliae orationes - nella nuova traduzione in italiano del Messale è a p. 903): "Omnípotens et mitíssime Deus, qui sitiénti pópulo fontem vivéntis aquae de petra produxísti: educ de cordis nostri durítia lácrimas compunctiónis; ut peccáta nostra plángere valeámus, remissionémque eórum, te miseránte, mereámur accípere - Dio onnipotente e di grande tenerezza, che per il tuo popolo assetato hai fatto sgorgare dalla pietra una sorgente d’acqua viva, fa’ scaturire dalla durezza del nostro cuore lacrime di pentimento, perché possiamo piangere i nostri peccati e ottenere il perdono dalla tua misericordia".
3 Per i testi citati cf. Elisabetta della Trinità, Scritti, Edizioni OCD 2013.