di P. Antonio Maria Sicari ocd
RICONOSCERE IL VOLTO SOFFERENTE DI CRISTO
1. San Giovanni di Dio (1495-1550).
È considerato «il creatore dell’ospedale moderno». Ma Giovanni non si prendeva cura soltanto dei malati: le cure che egli offriva si estendevano a tutte le opere di misericordia. Scriveva in una lettera: «Sono tanti i poveri che qui giungono, che io stesso molte volte non so come si possano alimentare, ma Gesù Cristo provvede a tutto e dà loro da mangiare, perché solo per la legna occorrono sette o otto reali ogni giorno; perché essendo la città grande e molto fredda, specialmente adesso d'inverno, son molti i poveri che giungono a questa casa di Dio; perché tra tutti, infermi e sani e gente di servizio e pellegrini ce ne sono più di cento e dieci... Vi sono rattrappiti, mutilati, lebbrosi, muti, pazzi, paralitici, tignosi, e molti vecchi e molti bambini; e senza contar questi, molti altri pellegrini e viandanti che giungono, e si dà loro fuoco e acqua e sale e recipienti per cucinare e mangiare, e per tutto questo non c’è rendita; ma Gesù Cristo provvede a tutto... E in questo modo sono indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo...». Di particolare interesse fu la sua maniera di accogliere e trattare i “malati di mente”. Petro Bargellini ha scritto di lui: «Pur completamente sprovvisto di studi di medicina, Giovanni si mostrò più bravo degli stessi medici, in particolar modo nel curare le malattie mentali, inaugurando, con grande anticipo nel tempo, quel metodo psicoanalitico o psicosomatico che sarà il vanto (quattro secoli dopo ... ) di Freud e discepoli».
Particolarmente incisivo è, ancor oggi, il nome dell’Istituto da lui fondato («Fatebenefratelli») che risale al modo con cui san Giovanni di Dio soleva chiedere l’elemosina per i suoi malati: «Qualcuno vuol fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate bene a voi stessi!».
Non si riesce, infatti, ad amare veramente la povertà altrui, se prima non si scopre anche la propria nascosta miseria. Da qui il dovere di «farsi del bene facendolo agli altri».
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2. San Camillo de Lellis (1550-1614).
Che la misericordia ci dia uno sguardo simile a quello di Cristo (che, a sua volta, ha incarnato la maniera con cui il Padre guarda «ciascun uomo») dipende dal fatto che Gesù sia contemplato per primo, con un’intensità spinta fino all’immedesimazione. Altrimenti non si potrebbe davvero spiegare la maniera d’agire di san Camillo de Lellis, il quale non solo pretendeva il meglio per i suoi malati, fino a voler gestire l’intero ospedale, ma esigeva anzitutto – da sé e dai suoi collaboratori – “la tenerezza”. Ogni malato era da lui personalmente ricevuto alla porta dell’ospedale e abbracciato; gli venivano lavati e baciati i piedi; poi veniva spogliato dei suoi stracci, rivestito di biancheria pulita e sistemato in un letto ben rifatto.
Camillo voleva persone che lo aiutassero «non per mercede, ma volontariamente e per amore d'Iddio servissero i malati con quell'amorevolezza che sogliono fare le madri verso i propri figli infermi»; e i suoi collaboratori lo osservavano per imparare: «Quando egli prendeva un malato in braccio per mutargli le lenzuola, lo faceva con tanto affetto e diligenza che pareva maneggiare la persona stessa di Gesù Cristo».
A volte egli gridava ai suoi collaboratori: “Più cuore, voglio vedere più affetto materno!”. Oppure: “Più anima nelle mani!”. Camillo non temeva di pulire a mani nude i volti dei malati divorati dal cancro, e poi li baciava, spiegando ai presenti che «i poveri infermi sono pupilla e cuore di Dio e perciò quello che si faceva ai poverelli era fatto allo stesso Dio». Che i malati fossero per lui un prolungamento dell’umanità sofferente di Cristo, lo si vedeva anche da certi atteggiamenti che assumeva a volte, quasi senza accorgersene. Racconta un suo biografo: «Una notte lo videro stare inginocchiato vicino a un povero infermo che aveva un così pestifero e puzzolente cancro in bocca, che non era possibile tollerare tanto fetore. E con tutto ciò Camillo gli parlava standogli vicinissimo, “fiato a fiato”, e gli diceva parole di tanto affetto, che pareva fosse impazzito dell'amor suo, chiamandolo particolarmente: “Signor mio, anima mia, che posso io fare per vostro servigio?”, pensando egli che fosse l’amato suo Signore Gesù Cristo...».
Un altro testimone arrivò a dire: «L'ho visto più volte piangere per la veemente commozione che nel poverello fosse Cristo, cosicché adorava l'infermo come la persona del Signore». Le espressioni possono sembrare esagerate, ma non era certo esagerata l’impressione che Camillo lasciava in chi l’osservava: tra la misericordia fattiva verso il prossimo bisognoso e la tenerezza per la persona stessa di Cristo, egli non lasciava sussistere nessun divario, tanto che si spingeva al punto di raccontare piangendo a qualche malato i peccati della sua vita passata, convinto di parlarne proprio col suo Gesù. Nei suoi occhi e nel suo cuore Gesù non diventava mai un ideale, un valore, una causa, o un motivo d’azione: era e restava una Presenza adorabile e adorata.
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3. San Giuseppe Benedetto Cottolengo (1786-1842).
È universalmente noto per la «Casa della Divina Provvidenza» da lui costruita a Torino: una casa che avrebbe dovuto avere sempre «come fondamento la Provvidenza, come anima la carità di Cristo, come sostegno la preghiera, come centro i Poveri». La sua caratteristica principale consisteva nell’essere aperta a tutti coloro che non trovavano altro ricovero, anche ai malati più ripugnanti e incurabili. Ed era gestita col criterio di offrire, a ogni categoria di bisognosi, una giusta “famiglia”, composta dagli assistiti e dai loro assistenti, dai volontari e da tutto il personale necessario alla loro cura, fino a costituire vere e proprie cittadelle. Erano perciò costruite a pezzi successivi, secondo i bisognosi che si presentavano alla porta: un edificio era destinato ai malati di mente (che S. Giuseppe Cottolengo chiamava «i miei cari amici»), un altro ai sordomuti, un altro agli invalidi, un altro agli orfani, un altro agli incurabili e così via. E a ogni edificio il Santo assegnava un nome cristianamente evocativo: «Casa della Fede»; «Casa della Speranza»; «Casa di Nostra Signora»; «Betlemme», e definiva simpaticamente tutto l’insieme: «La mia Arca di Noé». Ma c’è stato chi – sorpreso per tanta geniale creatività – ha suggerito piuttosto il titolo di «Università della carità cristiana». Ai suoi collaboratori il Cottolengo insegnava appassionatamente: «I poveri sono Gesù, non sono una sua immagine. Sono Gesù in persona e come tali bisogna servirli. Tutti i poveri sono i nostri padroni, ma questi che all’occhio materiale sono così ributtanti sono i nostri padronissimi, sono le nostre vere gemme. Se non li trattiamo bene, ci cacciano dalla Piccola Casa. Essi sono Gesù». Perciò esigeva che la carità venisse esercitata da tutti «con entusiasmo e con gioia».