di P. Giuseppe Furioni ocd

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Domenica gaudete è la terza di Avvento, come recita l’antifona d’ingresso alla liturgia eucaristica: «Rallegratevi nel Signore», secondo le parole di S. Paolo ai Filippesi. La domenica della gioia, dunque, per cui anche i colori dei paramenti da viola si “stingono” in un rosaceo meno severo. E introdotto già dalla parola di Dio della seconda di Avvento, al centro del Vangelo c’è il precursore, il più grande tra i nati di donna, mentre fa capolino ­– con il suo Magnificat che costituisce il salmo responsoriale – la evangelicamente più piccola del regno dei cieli, la Vergine Maria.

Giovanni, “uomo di frontiera” è stato definito. Egli prepara il popolo al definitivo esodo e ingresso nella terra promessa, quella abitata dal Figlio di Dio. Egli funge da sentinella, capace di vigilare perché il cammino di coloro che cercano Dio non si perda nel deserto della delusione e della sconfitta. Egli battezza al di là del Giordano, nello stesso luogo dove Giosuè e i suoi sono entrati nella terra promessa. E lì vuole preparare anche noi a saper cogliere, nel mistero di Gesù di Nazareth, il passaggio dalla promessa al compimento, dal provvisorio al definitivo, dall’antico al nuovo.

Deve solo preparare lo spazio, il tempo, il cuore e niente più. Quasi anticipando san Giovanni della Croce, deve ridursi al nulla per affermare il Tutto. E la professione di fede del Battista consiste nel “rinnegarsi” per affermare (e non rinnegare, come invece farà Pietro durante la passione) il vero Messia, il vero Salvatore.

In un’epoca, come la nostra, in cui si assiste all’esaltazione dell’io, Giovanni Battista ripete: «non sono io … il Cristo, …Elia, …il profeta». Non si tratta solo di una negazione psicologica o di una comoda rinuncia alle proprie responsabilità. È che lo scopo della predicazione di Giovanni è annunciare, con le parole e con la vita colui che con forza affermerà di sé: «io sono la luce», «io sono la strada», «io sono la via, la verità, la vita», «io sono il pane», «io sono il buon pastore», «io sono la risurrezione», addirittura: «Io sono».

Solo Gesù può attribuirsi questo “Io sono”, ovvero il nome stesso di Dio. Il nome di Dio per eccellenza, IHWH, quello rivelato a Mosè sul monte Sinai, la pienezza dell’essere: io, proprio io sono colui che è, e che sempre sarà con te, perché la pienezza dell’essere non solo consiste nell’esistere e niente altro; ma nell’essere presente, nell’essere qui e ora, nello stare con te in ogni momento. È la versione eterna del nome “Emmanuele”, Dio con noi, con il quale viene contrassegnato il Natale.

E Giovanni non vuole mettere ostacoli, non vuole essere invadente: si definisce semplicemente “voce”, suono, il che permetterà a S. Agostino di porre quella celebre distinzione tra il suono che passa e il Verbo che rimane. O se vogliamo, tutta la forza e l’impeto della sua persona si concentra in quell’indice puntato a indicare l’Agnello di Dio, secondo quell’insuperabile rappresentazione di Leonardo da Vinci esposta al museo del Louvre.

Anche l’immagine dell’intoccabile laccio del sandalo conferma l’infinita sproporzione tra colui che annuncia la venuta del Messia e il Messia stesso. A nessuno era consentito levare i sandali dai piedi del padrone, non ai servi, ma solo agli schiavi.

La stessa umiltà si può osservare da un’altra prospettiva. In Israele esisteva questa usanza per sanzionare un contratto di acquisto, un terreno per esempio: si metteva il piede in un campo o vi si gettava il proprio sandalo. E ciò equivaleva a prenderne il possesso. Così, nel Salmo 60, 10 si dice che Dio ha gettato i suoi sandali sull’Idumea, la regione a sud della Giudea, per affermarne la proprietà.

La calzatura, dunque, diventa il simbolo del diritto di proprietà. Ritirandolo o consegnandolo al compratore, il proprietario gli trasmette questo diritto.

Ma nel caso del Battista ci si muove per così dire preventivamente. Proprio perché lui non vuole essere proprietario di nulla, neanche per idea si accosta al sandalo di Gesù, neanche per toccargli un laccio.

Il paragone è tanto più interessante, se pensiamo che il Deuteronomio applica questo costume alla legge del levirato, ovvero all’usanza che la vedova di un uomo senza figli sia sposata da uno dei fratelli del morto; e che il caso concreto che si presenta nella storia sacra è quello del parente più prossimo alla famiglia di Noemi e Elimelech che rinuncia a sposare Rut consegnando il sandalo a Booz, dalla cui discendenza sorgerà Davide.

La vicenda del laccio del sandalo a cui il Battista non osa avvicinarsi, evoca per il momento in modo solo abbozzato la missione nuziale di Gesù, destinato ad essere lo sposo dell’umanità. Giovanni non vuole assolutamente ostacolare questo compito, anzi si mette al totale servizio come l’amico dello sposo; anche questa una figura giuridica, colui che – sempre secondo le antiche usanze – nella stipulazione del contratto nuziale si metteva a totale servizio degli interessi dello sposo e conduceva a buon fine la trattativa tra le famiglie.