di P. Stefano Conotter ocd
Serpeggia oggi fra tanti cristiani un sentimento di delusione, soprattutto verso delle personalità che hanno avuto un grande successo apostolico o hanno fondato comunità nuove e che sono oggetto di scandali legati ad abusi, non solo di carattere sessuale ma anche di coscienza e di manipolazione psicologica.
Come conseguenza di questi fatti, in alcune comunità si sta facendo un lavoro di rilettura della propria storia, dopo le rivelazioni degli abusi commessi dal proprio fondatore o da personalità che hanno avuto un ruolo di rilievo nello sviluppo della stessa comunità o movimento. Si tratta di un lavoro non facile e molto doloroso, ma fondamentale perché il carisma e la storia della comunità possa continuare ed aprirsi anche a nuovi sviluppi. Tuttavia dentro queste comunità alcune persone non riescono a fare questo lavoro, perché non possono vivere senza un’immagine idealizzata del fondatore. Non riescono quindi ad accettare la delusione.
Questa realtà che ho sintetizzata in poche righe meriterebbe di essere guardata più in particolare, per ogni storia e ogni persona, con grande compassione e anche discernimento. Ma a partire da questi fatti vorrei proporre una riflessione sull’esperienza della delusione, che mi sembra importante sia per le persone che per le comunità.
Una delusione buona
Infatti la delusione fa parte del processo di crescita della persona, così come il suo opposto, cioè l’idealizzazione. Per esempio un bambino idealizza i propri genitori da cui dipende totalmente ma, per fortuna, a un certo punto farà l’esperienza di essere deluso da loro. Questa esperienza gli permetterà di incamminarsi verso un percorso di autonomia e di nuovi rapporti. Lo stesso accade nella coppia dove al momento fondatore dell’innamoramento e dell’idealizzazione dell’altro segue, per fortuna, il tempo della delusione, che permetterà un incontro più vero e l’inizio di un reale cammino di crescita. Chi si rifiuta di essere deluso dall’altro, cercando di continuare ad illudersi, quasi sempre per fragilità o per ferite vissute in precedenza, si chiude in un gioco pericoloso che spesso porta all’annullamento di sé o al risentimento e alla rabbia distruttiva.
C’è quindi una delusione necessaria e positiva. Anche Gesù ha spesso deluso i suoi discepoli che l’avevano idealizzato secondo la loro immagine di Messia e il Vangelo testimonia vari momenti di questa delusione. Gesù ha abitato le categorie offerte dai profeti per descrivere l’arrivo del Messia, ma ha continuato anche a respingerle (è questo uno dei significati del cosiddetto segreto messianico, soprattutto nel Vangelo di Marco). Anzi il vangelo di Giovanni gioca molto su questo processo di illusione/delusione (per esempio al cap. 6 dopo la moltiplicazione dei pani) e fino all’ultimo momento Gesù dovrà “deludere” i suoi discepoli che gli chiedono: “Signore è adesso il momento in cui ricostruirai il Regno di Israele?” (At 1,6).
Una chiarificazione etimologica
Per capire questo aspetto positivo dell’esperienza dolorosa della delusione è importante ricorrere alla sua etimologia latina: si tratta di una parola composta dalla particella “de” e dalla parola “ludo”, gioco. Delusione significa quindi uscire dal gioco. Ma da quale gioco ci fa uscire la delusione? Quello della “illusione” (in-ludo) o dell’idealizzazione. Questo gioco è un potente motore di crescita, purché non si trasformi in un gioco di specchi, in cui, per esempio, una persona con una forte personalità direttiva, aiutando una persona fragile e disorientata, crea un legame di dipendenza dove ognuno si riflette nell’altro, non per crescere ma per rimanere chiuso nella propria situazione.
Anche la comunità delude
In un suo libro famoso, Vita comune, Dietrich Bonhoeffer applica questo anche al rapporto con la comunità: “In moltissimi casi un’intera comunità cristiana si è dissolta, in quanto si fondava su un ideale…. Dobbiamo cadere in preda ad una grande delusione circa gli altri, i cristiani in genere e, se va bene, anche circa noi stessi, e a questo punto Dio ci farà conoscere la forma autentica della comunione cristiana. È la pura grazia di Dio a non permettere che viviamo nell’ideale, nemmeno per poche settimane, che ci abbandoniamo a quelle gratificanti esperienze e a quella felice esaltazione che ci sopraggiungono come un’ebrezza… La comunità comincia ad essere ciò che dev’essere davanti a Dio solo quando incorre nella grande delusione, con tutti gli aspetti spiacevoli e negativi che vi sono connessi. Solo a quel punto comincia a comprendere nella fede la promessa che le è stata data… Ma una comunione incapace di sopportare e di sopravvivere a tale delusione, per il fatto di dipendere dall’ideale, con la perdita di questo perde anche la promessa di una stabile esistenza che è data alla comunione cristiana, e quindi prima o poi per forza va in rovina” (Queriniana 2015, p. 22). La lunghezza di questa citazione si giustifica per la pertinenza dell’argomentazione di Bonhoeffer rispetto al nostro tema. È interessante notare come le parole promessa e delusione sono considerate normalmente l’una opposta all’altra, mentre Bonhoeffer fa della delusione la condizione per accedere alla vera promessa della grazia. Quante volte ho letto questo testo di Bonhoeffer ai giovani che venivano a fare un periodo lungo di volontariato in Romania! Spesso accadeva in un momento di prova, ma che segnava una tappa importante di maturazione.
Delusione e discernimento vocazionale
Per cogliere la positività della delusione anche nel processo di discernimento vocazionale possiamo fare riferimento ad una esperienza di Teresa Martin, durante il pellegrinaggio che fece in Italia nel novembre del 1887 quando aveva quasi 15 anni. Racconta nel suo Manoscritto autobiografico: “La seconda esperienza che ho fatto (in questo pellegrinaggio) riguarda i sacerdoti. Pregare per i peccatori mi avvinceva, ma pregare per le anime dei sacerdoti, che credevo più pure del cristallo, mi sembrava strano! … Ah! In Italia ho capito la mia vocazione: per un mese ho vissuto con molti sacerdoti santi e ho capito che, se la loro sublime dignità li innalza al di sopra degli angeli, ciò non toglie che siano uomini deboli e fragili… Questa è la vocazione del Carmelo, poiché l’unico fine delle nostre preghiere e dei nostri sacrifici è di essere l’apostola degli apostoli…” (Ms A, 56r°). In questo racconto Teresa ci dà un esempio efficace di come la delusione, anche in ambito ecclesiale, lungi dal portare ad un’amarezza sterile o al voler prolungare l’illusione e l’idealizzazione ad ogni costo, matura invece in una chiamata feconda per la propria identità vocazionale e per la relazione con gli altri, in particolare in questo caso con la figura del sacerdote. Teresa è uscita dal gioco di specchi dell’idealizzazione e della dipendenza per scoprire un livello più reale e più profondo della relazione ( cfr. A. M. Sicari, F. Silvestri, Essere figli, Archa 2018, pp.157-158).
Esiti diversi della delusione
Non dimentichiamo che il gioco (ludo) dell’idealizzazione è importantissimo per crescere, per mettersi in cammino. Tuttavia porta con sé un’ambivalenza perché si tratta di investire il nostro desiderio di infinito, il nostro bisogno illimitato di essere confermati, su una persona, su una comunità che è un essere finito, una realtà limitata. L’inevitabile delusione può avere esiti diversi, come abbiamo visto all’inizio. Ci può essere la paura di affrontare una nuova situazione e quindi il rimanere chiusi in un rapporto di dipendenza, continuando a coltivare l’illusione dell’idealizzazione. Oppure ci può essere il risentimento, la rabbia, la decisione di abbandonare il legame che ha deluso. Questa seconda via può anche essere una tappa verso un altro esito, che non sia l’elusione del problema (evitare il gioco) ma l’affrontare un lavoro per riassettare la relazione e scoprire un’altra dimensione, più reale, più gratuita del rapporto con il padre, il maestro o la comunità. Ed è l’occasione di sperimentare la presenza risanante del Risorto, di un Dio che non smette di camminare con il suo popolo, che è sempre capace di far nascere del nuovo dall’interno dei nostri limiti; dall’interno dei nostri limiti riconosciuti. La Bibbia è piena di esempi in questo senso. Per prendere un personaggio caro a noi carmelitani, penso alla fuga del profeta Elia: dopo il trionfo del Monte Carmelo, fugge verso il deserto deluso da se stesso, ma anche dal popolo e forse anche da Dio stesso (1Re 18). Ma è in questa delusione che si apre un cammino che lo fa uscire dall’illusione di convincere il popolo con la forza e anche dalla sua idealizzazione di Dio (fuoco, tempesta e vento). All’arrivo di questo cammino, sul Monte Oreb, Elia incontra la presenza di Dio nel silenzio di un soffio leggero.
Conclusione
È difficile parlare di questa problematica complessa in così poco spazio. Ho raccolto solo alcuni spunti, che possono essere criticati, ma che mi sembra importante affrontare in questo tempo ecclesiale. Il Papa ci invita a non guardare gli scandali, che purtroppo sono accaduti nella Chiesa, come una macchia nera che non ci riguarda, o come se fossero delle cellule tumorali da asportare, ma che non toccano il resto del corpo. L’incontro che Francesco ha convocato un anno e mezzo fa a Roma (21-24 febbraio 2019), invitando ad ascoltare anche il dolore delle vittime, ha avuto per scopo proprio un discernimento che non riguarda solo i casi estremi, ma che può essere l’occasione di una messa in discussione dei nostri stessi comportamenti ecclesiali: “chiedo allo Spirito Santo di sostenerci in questi giorni e di aiutarci a trasformare questo male in un’opportunità di consapevolezza e di purificazione”[1]. Forse l’arte di saper deludere e di essere delusi con sapienza è proprio un dono che dobbiamo chiedere allo Spirito Santo, soprattutto in questo tempo.
Note: