di P. Aldino Cazzago ocd
«Ho imparato a sentire interiormente la presenza di Dio e a comprendere quanto grandi siano i miracoli. Forse, non ho ben compreso tutto quello che mi capitava. Ma penso fino in fondo che Dio ha trasformato la mia vita in un miracolo».
Queste parole non escono dalla bocca di una monaca di clausura che dal suo tranquillo e ordinato monastero racconta la propria esistenza come risposta all’amore di Dio per lei. Queste parole non sono nemmeno l’appassionata narrazione dei prodigi e dei miracoli che la grazia di Dio ha operato in uno dei grandi convertiti, di cui la storia del cristianesimo è costellata.
Queste parole, riferite da Avvenire di sabato 29 febbraio, sono di Asia Bibi, un semplice donna e madre cristiana del Pakistan che, a causa di una falsa accusa di blasfemia, prima era stata condannata a morte da un tribunale e poi ha trascorso quasi otto anni di durissima prigionia. Il 31 ottobre 2018 la Corte Suprema pakistana l’ha assolta da ogni accusa e, dopo aver vissuto nascosta per un periodo di tempo, solo l’8 maggio 2019 ha ritrovato la libertà al caro prezzo dell’abbandono della sua terra natia. Non è inutile ricordare che ella avrebbe potuto evitare i lunghi anni di carcere se avesse accettato l’offerta di abbandonare la fede cristiana e di convertirsi alla religione islamica.
Al giudice che le aveva suggerito questa allettante prospettiva - allettante solo per il giudice ovviamente - ella, come racconterà in una lettera del dicembre 2012, aveva così risposto: «Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana». «Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto –. Credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui».
«Ho imparato a sentire interiormente la presenza di Dio». Sono parole che ci portano per così dire a quella «nuda fede», che è l’essenza dell’atto con cui ogni credente si abbandona a Dio, «Nuda fede», quella di Asia Bibi, perché non poteva avere il conforto di alcun segno esterno della presenza di Dio, come lo era quello della liturgia e dei sacramenti o quello della vicinanza, anche umanamente confortante, di altri che con lei credevano. «Nuda fede» perché, dopo otto anni di carcere, la sensazione di essere stati abbandonati anche da Dio era umanamente comprensibile. E, infine, «nuda fede» perché umilmente certa del suo amore per Dio se disposta a «sacrificare la sua vita per Lui»
Poiché nel nostro Occidente non viviamo certo in condizioni di aperta discriminazione e di più o meno palese persecuzione come accade ai cristiani del Pakistan, potremmo essere frettolosamente tentati di considerare la vita e le parole di Asia Bibi come qualcosa che non ci riguarda in alcun modo. E sbaglieremmo. Proprio in questi giorni di generale spaesamento, segnati anche dalla limitazione di alcune pratiche religiose, come cristiani dovremmo sentire vicine e far personalmente nostra la «nuda fede» e la capacità di filiale abbandono che la testimonianza di Asia Bibi trasmette.
«La fede cristiana attinge la sua linfa vitale dal fatto che non solo esiste obiettivamente un senso della realtà, ma che questo senso è impersonato da Uno che mi conosce e mi ama, sicché io posso affidarmi a lui con l’atteggiamento del bambino, il quale ha la piena consapevolezza che tutti suoi problemi sono al sicuro nel ‘tu’ della madre». Sono parole che oltre mezzo secolo fa scriveva l’allora semplice teologo Joseph Ratzinger. Non hanno perso di validità perché pensiamo che Asia Bibi sentirebbe in esse descritta la propria «nuda fede» e le farebbe volentieri sue.
Le sue parole ci lasciano, infine, due domande: «Qual è la qualità, la stoffa, della nostra fede, cioè del nostro rapporto con Dio?», e «Abbiamo occhi per vedere i “miracoli”, che Dio pone nella nostra vita»? Tentare di rispondere ad esse è già un modo per considerare la testimonianza di questa cristiana come qualcosa che ci riguarda.