di P. Giuseppe Furioni ocd
Ormai alla vigilia di Natale, la quarta domenica di Avvento è tutta rivolta al mistero che deve accadere all’indomani, alla presenza di Dio dentro la storia dell’umanità. Il re Davide lo fa dal punto di vista della promessa, l’apostolo Paolo dal punto di vista del compimento, l’evangelista Luca dal punto di vista della contemplazione.
Davide avrebbe potuto confessarsi usando un’espressione assai comune tra i penitenti dei giorni nostri: “non ho messo Dio al primo posto”. Perché prima si era preoccupato di prendersi una città come territorio personale in una posizione elevata e facilmente difendibile; poi si era edificato una casa di cedro, una vera e propria reggia per quei tempi. Infine si era reso conto che l’arca del Signore, simbolo dell’alleanza con Dio e dell’unità del popolo, era rimasta abbandonata sotto una tenda. Ancora in stato di esodo, mentre il popolo (o almeno il re) aveva raggiunto una tranquilla stabilità.
La reazione di Dio, attraverso il suo profeta, non è quella dell’irritazione piccata, ma quella della promessa: non sarai tu a costruire una casa a me, ma sarò io – il tuo Signore – a costruire una casa a te, con una discendenza che duri per sempre.
E il vangelo di Luca, quello dell’Annunciazione, mostra come il disegno divino giunge a piena realizzazione. Lo stile stesso del racconto testimonia il carattere inedito, irriducibile a ogni schema umano.
Gli studiosi che hanno accostato Lc 1, 26-38, hanno provato a collocarlo in un genere letterario: ora quello dell’annuncio di una nascita meravigliosa (come quella di Isacco, Sansone, Samuele); ora quello dei racconti di vocazione (ad esempio quella di Gedeone); ora il genere letterario apocalittico; ora lo schema della rinnovazione dell’alleanza, più volte accaduta nell’antico patto. Tutti dicono qualcosa di vero, ma l’evento di Nazaret è sempre un passo più in là. Giustamente è stato notato come i racconti dell’infanzia di Gesù siano tessuti con i fili dell’Antico Testamento, ma l’arazzo che realizzano è qualcosa di totalmente inedito.
Bisogna avere sotto gli occhi una delle Annunciazioni del Beato Angelico, per avere anche visivamente compendiati – quasi in modo catechistico – tutti gli elementi del racconto.
Nell’incarnazione la vita intima di Dio si rivela con perfetta chiarezza come mai era accaduto prima. Tutto procede dal Padre, che rimane invisibile sullo sfondo. Resta sempre vero che Dio nessuno lo ha mai visto. Egli non s’incarna, ma manda il Figlio eterno. Il Figlio, a sua volta, si lascia inviare – «Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà» –. E questo accade per opera dello Spirito Santo che porta a compimento la volontà del Padre e conduce il Figlio là dove questa volontà può compiersi «come in cielo così in terra».
Dall’altra parte c’è Maria, tutta intera, realizzando alla perfezione quanto auspica san Paolo: «tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,23). Anche questo indica il mistero della sua verginità. Ma anche il fatto che ella agisce loco totius humanae naturae, in rappresentanza, a nome, anticipando se vogliamo, tutta l’umanità per la quale ogni “sì” convinto alla volontà divina sarà sempre contrassegnato dal consenso del Figlio e da quello di Maria.
Di più, la Vergine con la sua obbediente adesione alla volontà divina inverte la logica peccaminosa introdotta dalla disobbedienza dei progenitori. «Sumens illud “ave” … Mutans Hevae nomen», si canta nell’Ave maris stella. E anche il Beato Angelico volentieri aggiunge, ma solo sullo sfondo, alla sequenza evangelica dell’angelo che porta il lieto messaggio a Maria la scena di Adamo ed Eva cacciati dall’Eden.
E annuncia così la maternità della Chiesa. «Lo Spirito Santo scenderà su di te» (Lc 1,35) prepara «la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi [discepoli]» (At 1,8), perché siano testimoni fino ai confini della terra. E, sempre seguendo la grande tradizione spirituale, anche la maternità di ogni fedele cristiano.
Per questo non è privo di significato l’ammonimento graffiante, ma certamente efficace di qualche anno fa del sacerdote valtellinese don Abramo Levi: «State bene attenti, state bene attenti a dire che Dio è grande: grande nella forza, nella sapienza, nell’amore; perché, poi, questa grandezza la dobbiamo contenere noi, nel nostro piccolissimo. Aver da sopportare Dio così grande è assai più faticoso che dover portare e partorire un figlio. E non siate neanche tanto facili a dire che Dio è buono; potreste pentirvene alla prova dei fatti, e magari cambiare la lode in bestemmia. Nei catechismi predicati dai nostri preti, s’insegna e si spiega come il corpo di Gesù possa essere contenuto in una piccolissima ostia. Ma questo è affare di Dio. È lui che trova la maniera di essere contenuto nell’ostia. Invece, quando Dio vuole essere contenuto da noi, la cosa è molto diversa. Siamo noi ad andarci di mezzo. Perché Dio non fa complimenti, non chiede il permesso di venire da noi e di essere contenuto da noi. Non solo si siede in casa nostra, ma ci costringe a contenerlo, lui “che il cielo e la terra non valgono a contenere…”».