Che significa il fatto che Dio ci parla come ad amici? E, ancor prima, qual è il senso più vero della relazione di amicizia? A queste domande ha cercato risposta Marco Sgroi, frate della Provincia Veneta, in una nuova pubblicazione che invitiamo a scoprire.
Accade spesso che le parole da noi usate per definire luoghi, cose o relazioni ci scivolino addosso, senza che ci si renda conto del loro peso. È una fisiologica disattenzione lessicale, cui è difficile sfuggire persino leggendo i testi magisteriali più importanti della fede cristiana. E così – per esempio – , quando il Concilio Vaticano II dice che Dio si rivela agli uomini parlando ad essi «come ad amici» (DV 2), la tentazione di fronte a questa parola così universalmente nota è quella di non chiedersi cosa i padri conciliari intendano dire di preciso. Eppure la posta in gioco non è affatto secondaria per l’esistenza dell’uomo: si tratta di entrare nella comprensione del modo in cui Dio desidera farsi conoscere ed entrare in comunione con noi.
Senza questo dialogo di amicizia, la vita perde il suo senso: basti pensare al dibattito novecentesco sul silenzio di Dio, comunque percepito come drammatico, e in qualche modo ingiusto o innaturale. Dunque, cosa significa che Dio ci vuole parlare come a suoi amici? È davvero così? Non siamo, piuttosto, semplicemente “figli”? È legittimo l’utilizzo del concetto di amicizia alla luce dell’attestazione biblica? E ancora: che senso ha riproporre il paradigma amicale proprio nell’epoca della sua liquefazione nel nuovo “individualismo social”? L’attenta riflessione di F. Marco Sgroi parte da queste domande, e tenta di dare una risposta che sia meno scontata possibile.
Questo itinerario alla ricerca dell’amicizia e del suo proprium nell’ambito della rivelazione cristiana si articola in tre parti. Nella prima, il punto di riferimento è ciò che dice la Bibbia sull’amicizia di Dio. In particolare, si analizzano i tre testi che la stessa Dei Verbum richiama nel passaggio qui considerato (Es 33,11; Gv 15,14-15; Bar 3,38). Nella seconda parte, la più ricca, il tentativo è quello di interrogare l’elaborazione sapienziale umana sul tema dell’amicizia. In effetti, l’amicizia è tutt’altro che un argomento su cui manchino riflessioni. Al contrario, fin dall’antichità classica, essa viene cantata come una delle più elevate forme di amore (perché elettiva, a differenza della filiazione, e perché libera dalla passione erotica). F. Marco Sgroi si sofferma su quattro Autori, diversissimi per contesto culturale, formazione, metodologia: si tratta di Cicerone (106-43 a.C.), del monaco cistercense Aelredo di Rievaulx (1110-1167), di S. Tommaso d’Aquino (1225-1274), e del filosofo fenomenologo Dietrich von Hildebrand (1889-1977). Di ognuno viene sottolineata una sfumatura originale, che aiuta a comporre la terza parte, sintetica. In quest’ultima, si intrecciano i risultati della riflessione svolta. Ne emerge una descrizione dell’amicizia sorprendente, poliedrica e vivace. Si riprenderanno temi più noti, come la gratuità, la reciprocità o la fedeltà, ma anche originali: e, durante la lettura, ciò che scrivono i nostri Autori risuona nel cuore di chi legge, come l’eco di una verità da sempre saputa ma finalmente colta consapevolmente. Come quando si parla del fatto che due amici, per essere tali, devono camminare verso lo stesso bonum; o della relazione amicizia/carità; o come quando si rilegge in chiave personalistica l’amicizia come riconoscimento del (mio e altrui) valore nel volto dell’amico.
La riflessione si conclude affrontando il punto più rilevante, nell’ottica teologico-fondamentale: l’amicizia è correttamente inquadrabile come una forma privilegiata di relazione con Dio? La risposta si troverà, ovviamente, nella croce di Gesù. A tale proposito il lavoro di F. Marco Sgroi mette in guardia dall’incappare in un errore: quello di ridurre la questione a una scelta netta tra un Crocifisso morto “per tutti” - e quindi disinteressato all’amicizia ex parte hominis - in alternativa a un Crocifisso che “dà la vita per gli amici”, e che quindi in qualche modo specifica la sua carità nei limiti della reciprocità amicale. Come uscirne? Semplicemente mostrando come l’utilizzo del paradigma amicale non toglie nulla all’universalità della salvezza di Cristo, o alla sua oggettività. Questa oggettiva salvezza sembra bene espressa dal termine “figliolanza”. A che servirebbe aggiungere a questa analogia una relazione connotata nel senso dell’amicizia? In verità, aggiunge molto: parlare di amicizia mostra cioè che l’amore crocifisso di Dio non è imposto, ma può essere rifiutato: «l’uomo così potrebbe, anche, dare una risposta che suonerebbe in tal modo: “no, non desidero essere tuo amico”. Questo non può succedere, invece, nella figliolanza» (p. 144). Dio si rivela, così, interessato agli uomini e alla loro risposta, conformemente – del resto – a quella natura libera e relazionale che Egli stesso ha creato. Amicizia, dunque, appare un’espressione adeguata a esprimere la “modalità responsoriale” che Dio ci concede per accogliere liberamente la nostra adozione a figli, a somiglianza del Figlio primogenito che è Cristo Signore.
Un libro piccolo ma denso di spunti, sia per chi studia la teologia, sia per chi è semplicemente interessato a entrare in un dialogo di amicizia con il Dio che apre alla comunione filiale. Del resto, i santi carmelitani avevano capito molto bene che il cuore della mistica cristiana non è altro che un «intrattenersi con amicizia» con quel Dio che «nessuno ha mai preso invano come amico» (S. Teresa di Gesù, Vita 8,5).