di P. Aldino Cazzago ocd
Povera Madre Teresa, a 19 anni dalla morte avvenuta il 5 settembre 1997 e a 13 dalla sua beatificazione avvenuta il 19 ottobre 2003, la sua persona e il suo operato sembrano non trovare ancora pace. Come era facilmente prevedibile, anche all’approssimarsi della sua canonizzazione non è mancato chi ha sfoderato un repertorio di accuse. Niente di nuovo si dirà, visto che su di lei sono già state riversate pagine di miope critica, di travisamento della realtà, se non di autentiche menzogne. Paolo Villaggio, la docente di Cambridge Germaine Greer e il giornalista Christopher Hitchens, noto per il suo ateismo militante, sono soli alcuni dei nomi di “intolleranti e “allergici” a Madre Teresa.
A questi nomi è necessario ora aggiungere anche quello dell’indiana Krithika Varagur. Nel marzo scorso, appena saputo della data in cui Madre Teresa sarebbe stata canonizzata, il 4 settembre appunto, ha vergato un breve articolo, il cui titolo non lascia dubbi: Madre Teresa non fu una santa.
Le prove della presunta non santità sono quelle addotte da altri, in primis da Hitchens, e sempre smentite anche da fonti terze. Basterebbe citare quella di Ettore Mo, il grande inviato del Corriere della Sera, in un bellissimo reportage del marzo 1993, provocatoriamente intitolato Con Madre Teresa un inferno d’amore o di Tiziano Terzani, intitolato Madre Teresa, l’angelo dei dannati, sullo stesso quotidiano nel settembre 1996. Non è inutile aggiungere che una delle prove della non santità, quella di convertire al cristianesimo induisti moribondi, è stata ed è spesso rilanciata da esponenti radicali del mondo induista. La fonte dell’accusa si commenta da sola.
Lo scritto della Varagur contiene, però, un elemento di novità nel panorama delle accuse a Madre Teresa: la lettura colonialista della sua vita e della sua opera. Afferma: «La sua immagine [di Madre Teresa] è interamente racchiusa nella logica coloniale: quella del salvatore bianco che getta una luce sugli uomini dalla pelle ambrata più poveri del pianeta. […] E tutti quei suddetti uomini dalla pelle ambrata, poi, come li avrebbe aiutati? In modo quanto meno discutibile, ammesso che l’abbia mai fatto». Qualche riga dopo così prosegue: «Ma l'imminente santificazione di Madre Teresa è un qualcosa in grado di suscitare un'irritazione del tutto inedita. Noi concepiamo Dio a nostra immagine, e vediamo la santità in coloro che ci somigliano. Da questo punto di vista l’immagine di Madre Teresa rappresenta un reperto della supremazia bianca occidentale. La sua glorificazione avviene a scapito della psiche collettiva indiana - della mia psiche indiana. E di un miliardo di indiani e della diaspora a cui è stato inculcato il concetto che quando sono i bianchi ad aiutarci è diverso, è meglio».
Un commento a queste parole esigerebbe ben altro spazio e tempo. Qui ci limitiamo a osservare che «la logica coloniale» di Madre Teresa, per nostra fortuna, esiste solo nell’immaginazione della Varagur. La prova? Nel 1968, ad appena tre anni dall’approvazione pontificia della sua Congregazione, incoraggiata da Paolo VI, Madre Teresa aprì la sua prima casa in Europa proprio a Roma. Cinque missionarie della Carità andarono ad abitare in una baracca di lamiera nel quartiere di Tor Fiscale. Nel 1969 le sue suore giungeranno in Australia e nel 1971 a New York nel Bronx e, in anni più recenti, nel 1985 sempre a New York, aprirà un ricovero per i primi malati di AIDS. Si scherzi pure con i fanti, ma si lascino stare i santi.
Dopo aver letto le affermazioni della Varagur, torna la domanda che sempre si affaccia in simili circostanze: «Hanno idea, questi critici, di che cosa sia la santità cristiana?». A questi critici bisognerebbe forse rileggere le parole che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1961 di ritorno da un suo viaggio in India, in compagnia di Elsa Morante e Alberto Moravia: «Suor Teresa vive in una casetta non lontano dal centro della città, in uno sfatto vialone, roso dai monsoni e da una miseria che toglie il fiato. […]. Suor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, perché è albanese, alta [sic!], asciutta, con due mascelle quasi virili, e l’occhio dolce, che, dove guarda, ‘vede’. Assomiglia in modo impressionante a una famosa sant’Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica».
Anche a noi che la sentiamo vicino, la piccola suora albanese, nata a Skopje il 26 agosto 1910, ha qualcosa da dire: «Quando la mia croce diventa pesante, fammi anche condividere la croce di altri; quando son povero, guidami da qualcuno che è nel bisogno; quando non ho tempo, dammi qualcuno che io possa aiutare per qualche momento; quando sono umiliato, fa’ che io abbia qualcuno da lodare; quando sono scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare; quando ho bisogno di comprensione dagli altri, dammi qualcuno che ha bisogno della mia comprensione; quando ho bisogno che ci si occupi di me, mandami qualcuno di cui occuparmi; quando penso solo a me stesso, attira la mia attenzione su un’altra persona». I passi della nostra santità non hanno altra strada da percorrere.