di P. Saverio Cannistrà ocd

thumb giovanni - carmelo di ubedaQuest'anno siamo presi dalla celebrazione del centenario della nascita di Santa Teresa. Continuamente siamo richiamati alla lettura dei suoi testi, alla rievocazione della sua vita e della sua figura. Proprio per questo, nel celebrare oggi la festa di San Giovanni della Croce, salta agli occhi con particolare evidenza la differenza che c'è tra lui e Teresa, pur nella condivisione della stessa vocazione e dello stesso carisma. Ciò, peraltro, ci fa capire quanto ampio sia lo spazio del carisma carmelitano, quanto diverse possano essere le sue incarnazioni e manifestazioni. Proprio perché l'identità di un religioso non è qualcosa di aggiunto o di artificiale, ma fa corpo con la sua stessa carne, con la sua storia ed esistenza, è normale che ciascun frate, ciascuna monaca, che si è lasciato plasmare dalla propria vocazione, presenterà un volto diverso, scoprirà una possibilità nuova e inedita del carisma. E questo mi sembra bello e liberante: il carisma è opera, è frutto dello Spirito, e ne condivide perciò la fantasia e la creatività. Sono piuttosto i carismi non vissuti che si irrigidiscono in formule e in stereotipi o in discorsi retorici, privi di contenuti reali.

Molti dicono: è più difficile avvicinare e capire Giovanni che Teresa. Penso che ci sia del vero in questa affermazione, ma per un motivo opposto a ciò che generalmente si pensa. Si pensa che Teresa sia semplice e Giovanni complicato; che Teresa sia spontanea e immediata e Giovanni elaborato e distante; che Teresa sia quotidiana e incarnata e Giovanni sublime, "celestiale e divino", come Teresa stessa lo ha definito. Certo, se guardiamo al modo di scrivere, non si può negare che lo stile di Teresa appare diretto e colloquiale, quanto quello di Giovanni è raffinato e meditato, frutto di un lungo e mai concluso lavoro di revisione, correzione, rielaborazione.


Ma nella sostanza mi pare di poter dire che le cose stanno diversamente. Teresa non è solo una persona: è un mondo in cui si ritrova più o meno tutto ciò che fa parte della storia, della cultura, del costume del suo tempo. È una vera enciclopedia, in cui - proprio per lo stile semplice, per l'humilis sermo di cui fa uso - tutta la realtà può entrare. C'è nell'opera di Teresa, insieme ai momenti di profondo raccoglimento e di intensa comunicazione con Dio, il rumore, la confusione e il disordine di una civiltà in pieno sviluppo e al tempo stesso in contraddizione con se stessa e disorientata.

Padre SaverioIn Giovanni si respira un'altra aria, si contempla un altro paesaggio, in cui solo pochi e semplici elementi vengono ammessi. Giovanni usa simboli primitivi, senza tempo: la notte e la fiamma, il buio e la luce, la montagna e la fonte che scorre. È un uomo che scappa dalla città e cerca rifugio nella natura, che sente compagna, amica, nel suo silenzioso testimoniare una presenza originaria, più antica dell'uomo, con un ritmo e una logica diversi da quelli della società degli uomini. È questa diversità che Giovanni cerca e ne resta incantato. Per lui Dio è altro, è semplicità assoluta, mentre l'uomo è complicazione, stratificazione di desideri, quasi tutti illusori e devianti. In fondo, è proprio vero che Giovanni cerca una via molto corta e molto diretta verso Dio, perché si è accorto che le altre vie, quelle che passano attraverso i percorsi tortuosi della storia umana e delle sue contraddizioni, rischiano di non condurre se non all'uomo stesso.

Sia chiaro: Giovanni non sta rifiutando ciò che è costitutivo dell'uomo, anzi lo sta valorizzando. Le facoltà fondamentali dell'uomo, la ragione, la volontà e la memoria, hanno bisogno di essere svuotate, liberate da una sorta di ingorgo che le blocca e, per usare un termine di oggi, le rinchiude in un loop, che rende impossibile l'accesso a un livello superiore. Per Giovanni, che in ciò è buon discepolo di Tommaso, la ragione, la volontà e la memoria ci sono date perché Dio sia il loro oggetto, o meglio, la destinazione a cui tendere. Se questo dinamismo si inceppa, non funzionano più, neppure nella loro percezione del mondo e della storia.

Ecco perché c'è bisogno di notte e di silenzio, di fermare l'orologio e di lasciare che il tempo sia scandito dallo scorrere dell'acqua o dal crepitare del fuoco. Giovanni, per usare ancora un termine del nostro tempo, ci insegna una ecologia della mente e del cuore, una disintossicazione di tutto ciò che ci sta inebriando e al tempo stesso ottundendo, rendendoci meno lucidi, meno attenti, meno intelligenti e volitivi, meno memori della nostra vera natura.

E se la via alla verità, e quindi a Dio, passasse proprio per questi cammini di semplificazione e di riduzione, anziché attraverso la babelica impresa di ricapitolare tutta la storia del mondo nella speranza di trovarne il Logos, il senso ultimo, lo Spirito che la guida a cavallo di qualche destriero? È una bella domanda, una salutare inquietudine che il piccolo Giovanni ci lascia in eredità, lui che sul finire della sua vita confessava con semplicità in una lettera a una sua amica: «Stamani siamo già tornati da cogliere i nostri ceci e così tutte le mattine. Un altro giorno li batteremo: È bello maneggiare queste creature mute, meglio che essere maneggiati da quelle vive. Dio me lo conceda a lungo».