di P. Tarcisio Favaro ocd
Tra i tanti pensieri in questi giorni di trepidazione, mi tornano in mente insistentemente alcune immagini e parole che chiedono un approfondimento. Il frate che chiama al telefonino la famiglia del defunto e che prega inesieme ai parenti per il loro caro morto, in una specie di diretta – indiretta, pietosa e dolorosa.
Ancora: la moglie che prega l’infermiere di ricordare al marito in rianimazione la sua vicinanza impossibile eppure possibile: le dica che lo amo tanto! In più anche la tenerezza dei medici e infermieri che sanno di essere l’ultimo legame dei malati coi loro cari. Il dolore di chi non può dire niente, fare niente, neppure essere presente a un qualunque funerale, perché le salme partono sui camion militari.
Così mi sono ricordato di alcuni momenti della vita di Edith Stein. Di passaggio da Francoforte Edith, insieme ad un’amica, visita un museo (1916). Si imbatte in una Deposizione fiamminga, ma a questa serie di statue in legno manca il Cristo. Edith e la sua amica si fermano sopraffatte dall’espressione dei volti, fatti ricettacolo di ogni dolore e miseria umana. Al gruppo di statue dolenti manca la centrale: manca il Cristo (proprio non c’è). Eppure tutto il dolore è verso questo Cristo che materialmente manca, ma spiritualmente, affettivamente e artisticamente è fortemente presente. Ne traiamo una descrizione potente del dolore che c’è nel mondo e nella persona. Per chi? E soprattutto verso chi? C’è un centro che lo accoglie e che, sorprendentemente, lo salva? Lo valorizza?
Nel gruppo di statue manca materialmente il Cristo, non c’è; ma, incredibilmente, è presente. Oppure con più intelligenza teologica e umana, tutti gli uomini piangono nel loro dolore assurdo che si vede, il Suo dolore che non si vede? L’altro ricordo di Edith è l’ultima testimonianza di lei viva al campo di Westerbork, scritta da un’amica.
…. Sì, credo proprio che misurasse in anticipo le sofferenze che la aspettavano, non la propria – era troppo calma per questo, anzi direi troppo calma! – ma quella delle altre. Quando la rivedo, nella memoria, seduta in quella baracca, tutto il suo atteggiamento evoca in me un solo pensiero: quello di una Vergine dei dolori, una Pietà senza Cristo…
Qui si riannoda la vicenda di questi giorni, nel dolore delle mogli, e anche delle madri dei morti più giovani: malati che non si possono accompagnare fisicamente e morti che non si possono vedere e abbracciare…Tutte le Pietà della devozione popolare, come quelle dei grandi artisti, tutte portano in grembo il figlio morto: grembo e braccia che trattengono, in un lacerante abrraccio, le esperienze più contraddittorie: l’amore e la morte. Ma nel racconto che la testimone ci fa e nell’immagine finale, una Pietà senza Cristo, la sofferenza è – se possibile – ancora più radicale; fa male: la donna non ha nemmeno il Figlio da stringere, da baciare. Dov’è questa carne nata da lei per la vita? Dov’è questo amore fatto carne? Non c’è. Allora come adesso. Meglio: l’allora continua adesso.