3. Un tempo profetico
di P. Stefano Conotter ocd
L’Institutio Primorum Monachorum, ritenuto fra i più antichi testi della tradizione carmelitana, presenta la forma della vita monastica rifacendosi direttamente al suo modello, il profeta Elia. Prima di sviluppare il suo commento mistico ai primi versetti del cap. 17 del secondo libro dei Re, il testo si premura di collocare cronologicamente la vita del profeta, nel contesto del regno di Achab, in rapporto con la venuta del Signore: «usque ad Christi adventus in carne» e conclude sottolineando: «coepit Achab regnare ante incarnationem Domini Iesu».
La vita come Avvento
Questo è interessante perché la prima presentazione del fine di questa forma di vita, istituita dal profeta Elia e fondata sull’ esempio dei suoi primi discepoli, è costruita con citazioni della Scrittura che rimandano in modo evidente all’Avvento: «seguendo questa forma di vita noi prepariamo al Signore una via verso i nostri cuori (Gv 1,23) e raddrizziamo per il nostro Dio le strade per venire a noi (Mt 3,3) affinché, quando egli verrà e busserà, subito apriamo, a lui che dice: Ecco sto alla porta e busso; se qualcuno ode la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui, e cenerò con lui ed egli con me (Ap. 3,20)».
Così la forma stessa della vita degli eremiti che vivono sul Monte Carmelo è presentata proprio come un Avvento, fatto di attesa e di preparazione per la venuta del Signore. Questa logica si sviluppa poi nel capitolo secondo con la presentazione del duplice fine della vita carmelitana. «Al primo di questi due fini – ossia alla purezza del cuore – si giunge mediante lo sforzo e l’esercizio delle virtù, con l’aiuto della grazia divina; attraverso la purezza del cuore e la perfezione dell’amore si arriva al secondo, cioè alla conoscenza sperimentale della forza divina e della gloria celeste, secondo ciò che il Signore dice: Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch’io lo amerò e gli manifesterò me stesso (Gv 14,21)». Questo secondo fine «ci viene accordato per puro dono di Dio». Tuttavia richiede una preparazione del cuore e un’attesa piena di desiderio che sono l’opera della virtù sostenuta dalla grazia.
Sembra che l’unicità di questo duplice fine tracci il solco su cui si svilupperà tutta la tradizione della scuola carmelitana, dove si approfondirà in modo sempre nuovo che l’elemento decisivo è la volontà di Dio di comunicarsi, di unirsi alla sua creatura.
Fare spazio a Dio per accoglierlo
San Giovanni della Croce sintetizza questa traccia nella famosa affermazione: «Se la persona cerca Dio, molto di più il suo Amato cerca lei» (Fiamma B, 3,28). Ciò richiede una continua revisione nel nostro modo di percepire i ruoli. Come scrive P. Iain Matthews (confratello della Provincia anglo-irlandese) nel suo bellissimo libro L’impatto di Dio: «per Giovanni della Croce, Dio è un Dio che si sta avvicinando, ed il nostro sforzo principale non deve tanto essere quello di costruire, ma di riceverlo: la parola chiave non sarà tanto ‘risultato’ quanto ‘spazio’. Fare spazio a Dio per riceverlo».
Da parte sua Santa Teresa scrive nel Cammino di Perfezione, anticipando il tema che svilupperà nel Castello Interiore: «Nulla di più meraviglioso che vedere Colui che può riempire della sua grandezza mille e più mondi, rinchiudersi in una cosa tanto piccola, come gli piacque rinchiudersi nel seno della sua santissima Madre. Egli è il Signore del mondo, libero di fare quel che vuole, e perciò nell’amore che ci porta, si accomoda in tutto alla nostra misura. […] Per questo ho detto che può fare quel che vuole, perché, volendo, può ingrandire a piacere il palazzo dell’anima. L’importante per noi è fargliene un dono assoluto, sgombrandolo da ogni cosa, acciocché Egli possa aggiungere o togliere come vuole, come in una sua proprietà. Se non sforza nessuno ed accetta quanto gli si dà, non si dà del tutto se non a coloro che del tutto si danno a Lui» (Cammino, 28,11-12). È ancora la stessa traccia carmelitana del duplice fine, dove l’accento è posto sul desiderio del Signore di donarsi. Per sottolineare che si tratta di un principio sintetico del suo carisma, Teresa aggiunge subito: «Questo è fuori di dubbio, e lo ripeto tante volte perché è molto importante». Immaginiamo quante volte e con quale capacità di persuasione la Madre avrà ripetuto questa frase alle sue consorelle e ai suoi amici!
Lo spazio che l’Avvento ci chiede di creare al Mistero che preme per entrare nella nostra vita e nella storia, non è quindi un vuoto asettico, ma una relazione, perfino nell’errore. Il vuoto è autogiustificarsi, lo spazio è invocare il Salvatore (Lc 18,9-18). Per questo nel Carmelo il periodo dell’Avvento è un tempo profetico, pedagogico, perché mette l’accento sulla venuta del Signore che preme sulle nostre esistenze per portare la novità inaspettata della sua presenza.
L’attesa dei profeti simbolo del carisma
Ma bisogna notare anche che il Carisma carmelitano è l’unico che ha coltivato in modo esplicito e permanente il suo radicamento nel Primo Testamento, che per noi cristiani è la lunga e paziente preparazione della venuta del Signore. La sua inaudita Incarnazione costituisce il compimento di questa preparazione. Ma dal punto di vista della sua venuta nella gloria, della ricapitolazione di tutta la realtà in Cristo, noi siamo ancora nella situazione dei profeti del Primo Testamento, siamo ancora nella preparazione e nell’attesa. Ecco perché la Chiesa continua a leggere i profeti che hanno annunciato la venuta del Messia e in modo particolare lo fa durante il periodo dell’Avvento.
Nella Costituzione Dogmatica sulla Chiesa i padri del Concilio Vaticano II hanno scelto di collocare la Vita Religiosa tra il capitolo che parla della chiamata universale alla santità e quello che tratta dell’indole escatologica della chiesa pellegrinante. In questo senso il carisma proprio della Vita Consacrata non è tanto quello della chiamata alla santità, che è universale, ma piuttosto quello di essere profezia, attesa e in qualche modo anticipazione della pienezza del Regno.
Se questo è vero per tutta la Vita Consacrata, pare che il riferimento al profeta Elia chiami l’Ordine Carmelitano a coltivarlo come un’identità specifica a nome di tutto il Popolo di Dio. Non solo perché nella Scrittura Elia è il Profeta del Primo Testamento, ma anche perché è presentato come colui che viene a preparare la venuta del Signore (Ml 3,1.23-24).
Per questo le leggende carmelitane, che sono state un modo di esprimere e approfondire la propria identità soprattutto in rapporto con le sue radici bibliche, non hanno avuto paura di appropriarsi anche della figura di Giovanni Battista, considerandolo carmelitano, vestito come i profeti della scuola del Carmelo. Giovanni Battista, «l’uomo di una sola gioia, quella di udire la voce del Signore» che si avvicina, come Elia sull’Oreb.
Ecco perché il tempo dell’Avvento ha suscitato in tanti santi carmelitani sentimenti di famigliarità, a volte quasi di identità come in Elisabetta della Trinità, spesso di lirismo come nelle Romanze trinitarie di san Giovanni della Croce, sempre e comunque di senso di responsabilità davanti a tutta la Chiesa per incarnarne l’attesa.