di P. Stefano Conotter ocd
Nella prima parte di questa meditazione biblica sull’abito carmelitano, abbiamo parlato della cappa a partire dal mantello di Elia. La Bibbia ci dà altre indicazioni sul modo in cui vestiva il profeta di Tisbe. All’inizio del secondo libro dei Re troviamo un episodio in cui Elia è riconosciuto da Acaz proprio per il suo abbigliamento. Alla domanda de re - "Com'era l'uomo che vi è venuto incontro?” - i messaggeri rispondono: "Portava una veste di peli e una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi" - "Quello è Elia il Tisbita!" replica il re.
Ricordiamo che, fino al secolo scorso, anche la tonaca (o tunica) dell’abito carmelitano era fatta rigorosamente di peli di animale, cioè di lana grezza1. Essendo Elia l’archetipo biblico del profeta, questa descrizione servirà a identificare la qualità di profeta di alcuni personaggi biblici (Zc 13,4), come mostra l’esempio del Battista: “Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi” (Mt 3,4). Quindi, in primo luogo, questa veste si riferisce alla “professione” profetica.
Tuttavia, nel cercare il significato biblico di questo elemento dell’abito, noi prenderemo la strada che ci fa risalire verso le origini. Leggiamo infatti nel libro della Genesi che, dopo il peccato e prima della cacciata dal giardino di Eden, “Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vesti” (Gn 3,21).
Per capire il significato teologico di questo vestito bisogna risalire al senso della nudità originaria. Nel suo libretto Per una teologia del vestito Erik PETERSON diceva che, nel Paradiso terrestre, essere nudi non coincideva con l’essere svestiti. L’uomo infatti era vestito della grazia e della giustizia divina, che rendeva il corpo trasparente alla persona. La luce di gloria risplendeva attraverso la corporeità. I corpi erano epifanici. Per questo il testo biblico dice con molta profondità: “Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna” (Gn 2,25).
Padre Marko Rupnik usa un paragone molto efficace per spiegare questo fatto2. Quando guardiamo una candela accesa vediamo soltanto la luce della fiamma. Se la candela viene spenta non resta più che lo stoppino nero, senza luce. Ecco, così era il corpo quando ha perso la luce della gloria di Dio, è rimasto senza la vita dello spirito che gli dava luce, è rimasto un corpo mortale.
Ecco perché le tuniche di pelli che il Signore fa all’uomo non indicano soltanto la premurosa sollecitudine divina che continua a prendersi cura della sua creatura, anche dopo il peccato. Sono soprattutto il segno della mortalità che è diventata la condizione dell’uomo. Alcuni Padri della Chiesa, come per esempio Gregorio di Nissa nel Trattato sull’anima e la risurrezione, sottolineano che le tuniche sono fatte con pelle di animali morti. Ciò indica la mortalità come condizione dell’esistenza umana, non solo come castigo ma anche come rimedio, in vista della promessa della resurrezione. San Gregorio, che era stato fortemente marcato dalla morte, in particolare quella della moglie e del figlio, legge la mortalità alla luce del Mistero pasquale di Cristo. E’ l’uomo vecchio che deve morire perché possa nascere l’uomo nuovo. Come dice san Paolo ai Colossesi: “Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore (Col 3,9, anche Ef 4,21-24). San Paolo si richiama alla grazia del battesimo, in cui lo spogliarsi per essere immersi nell’acqua e poi rivestirsi con la veste bianca faceva parte del rito sacramentale.
E’ interessante notare che anche l’entrata nella vita religiosa ha una connotazione di passaggio da una vita all’altra. In Oriente l’entrata nella vita monastica si presenta in gran parte come un rito funebre, dove l’uomo vecchio, con la vita di prima, muore per far spazio alla novità della vita in Cristo che si vuole abbracciare nel monastero. Per questo la tradizione patristica mette in relazione i consigli evangelici con il Mistero pasquale, perché essi esprimono una sorgente di vita diversa, non naturale, ma ricevuta dall’essere in Cristo.
Non solo l’entrata nella vita religiosa, così come il battesimo, è segnata da una morte in vista della nascita nel Figlio risorto, ma tutta la vita religiosa si apre come un cammino nel segno della dinamica pasquale. Per questo la tonaca monastica, e in particolare quella carmelitana, di lana grezza e di colore marrone scuro o grigio, è un richiamo alla morte. E’ un richiamo non solo alla mortalità come condizione umana, ma anche alla mortalità accolta coscientemente, in vista del rivestirsi dell’uomo nuovo secondo la vita risorta di Cristo. E’ questo anche il vero senso della parola mortificazione, come scelta di far morire gli atteggiamenti dell’uomo vecchio che impediscono alla vita di grazia di svilupparsi liberamente.
Quando questo cammino, non è un volontarismo soggettivo, ma l’esodo che Dio ci fa compiere verso la terra promessa, allora capiamo la bella espressione del Deuteronomio: “Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni” (Dt 8,4).
Lo scopo è ritrovare lo spendore originario, come la veste sfolgorante di Gesù al momento della Trasfigurazione, poco prima della sua Passione. Per questo Giovanni Paolo II ha posto l’episodio della Trasfigurazione del Signore all’inizio dell’esortazione Vita Consecrata, come icona da contemplare per comprendere la vita religiosa.
In conclusione, la tonaca di lana grezza, che richiama la veste di peli del profeta Elia, può essere vista come simbolo della mortalità assunta volontariamente come cammino pasquale dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, per essere rivestiti della gloria del risorto.
Ritroviamo così anche la dimensione profetica, che caratterizza la veste di Elia, perché la vita consacrata è, in questo modo, rinuncia alla vita naturale, “mondana”, per diventare profezia del Regno, cioè della vita risorta.
Note:
1 Vedi: Giancarlo ROCCA (a cura di) La sostanza dell’effimero. Gli abiti degli Ordini religiosi in Occidente, Ed. Paoline 2000. Voce 101. Carmelitani, di Emauele BOAGA P. 369-374.
2 Marko I. RUPNIK, L’arte della vita, Il quotidiano nella bellezza, Ed. Lipa Roma 2014, pp. 149-154.