di P. Ermanno Barucco ocd
La prima volta che ho sentito la parola “pazienze”, e per di più pronunciata in dialetto bresciano “pasiènse”, fu il giorno in cui morì mio nonno perché si disse di mettere nella bara il rosario e il crocifisso ma anche che mio nonno avrebbe desiderato pure avere le “pazienze”. Scoprii poi che si trattava di uno scapolare, che mio nonno aveva ricevuto in quanto Terziario francescano, perché allora in realtà non sapevo neppure cosa fosse uno scapolare, avevo sedici anni, e perché allora nessuno parlò di scapolare ma solo delle “pasiènse”. E non seppi cosa fosse lo scapolare del Carmine per altri anni, finché non me ne parlarono quando divenni postulante Carmelitano scalzo, all’età di diciannove anni.
Le “pazienze”: lo Scapolare a Venezia e nella Serenissima
Alcuni giorni fa mi sono chiesto da dove venisse questo modo di chiamare così lo scapolare e quale sia il senso di questa denominazione. Basta fare una ricerca in internet per capire che il sostantivo “pazienze” è conosciuto dal vocabolario Treccani per indicare lo scapolare o “abitino” della Madonna del Carmine. Ma da altri risultati della ricerca si evince anche che questa parola è stata soprattutto usata nei territori della Repubblica di Venezia, cioè è tipica del veneziano e delle terre che nei secoli hanno fatto parte della Serenissima Repubblica. In un inventario di una bottega del XVII secolo a Venezia si indicano «115 Patientie del Carmine, in tella per patientie», con la spiegazione dell’editore dei nostri giorni: «Le pazienze erano scapolari o abitini con impresse immagini della Madonna del Carmine».
A Venezia esistono proprio vicino alla Chiesa dei Carmini calli e ponti con la denominazione “de le Pazienze” là dove delle Terziarie Carmelitane (chiamate Pinzochere, altra denominazione della calle) avevano la loro casa (dalla metà del XV secolo) e fabbricavano “le pazienze” (gli scapolari). In queste stesse calli fu poi costruita alla fine del XVI secolo la Scuola dei Carmini, come sede della confraternita laicale della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, di quanti indossavano le “pazienze”. La Scuola è famosa nel mondo intero perché fu affrescata dal Tiepolo a metà del XVIII secolo e anche per questo divenne, qualche anno dopo, “Scuola Grande dei Carmini”. Ancora a Venezia, all’incrocio tra Calle San Pantalon e Calle Crosera, c’è un capitello della Madonna del Carmine col Bambino Gesù che dona lo Scapolare a san Simone Stock, e la spiegazione popolare ritiene sia un religioso inginocchiato «in atto di ricevere le “pazienze” del Carmine».
Le “pazienze”: ipotesi di significato
È però difficile determinare il motivo per cui lo scapolare fu chiamato “le pazienze”. Qualcuno ritiene che forse fu creduto per errore un piccolo strumento di “penitenza”, un piccolo cilicio portato sotto il vestito che doveva provocare delle sofferenze (pazienze, da patior) per unirsi alla Passione di Cristo. Altri sostengono che chiamare scapolare “pazienze” derivi dalla tradizione monastica benedettina, poiché lo scapolare era inizialmente una specie di grembiule che proteggeva l’abito quando si lavorava, cioè quando si soffriva (laboro) e si pativa (patior) la fatica, per così dire, con pazienza. C’è chi lo fa addirittura risalire al doppio pallio dei Filosofi Cinici, che lo portavano «sul nudo corpo senz’altra veste» per esercitarsi alla pazienza che era una delle principali virtù che essi raccomandavano, come ebbe a dire Orazio del filosofo greco Diogene: «quem [Diogenem] duplici panno patientia velat» (Epist. 1,17,15). Il vestito e il suo significato avevano così lo stesso nome.
Una risposta più semplice può venire addirittura dal fatto che se “scapolare” deriva dall’osso della scapola, poiché il tessuto scendeva dalle spalle che sovrastano le scapole, così “pazienze” possa derivare dalla stessa origine anatomica del corpo umano, cioè dal musculus patientiae che si trova proprio tra il collo e la spalla ed è il muscolo che consente il movimento di elevazione quando “si fanno le spallucce”, tanto che la scapola è sollevata proprio dal “musculus levator scapulae, seu musculus patientiae”.
Dal significato fisico al significato spirituale
Certo, il significato concreto e fisico ha poi bisogno di essere elevato ad un significato spirituale, come era già avvenuto nella stessa tradizione benedettina con lo scapolare che da abito di lavoro fu poi inteso quasi come un’armatura spirituale da cui non separarsi mai neppure la notte. Il termine “pazienze” ispira facilmente in ambito cristiano un significato ascetico legato alla sofferenza e alla Passione di Cristo, o legato ad una virtù raccomandata anche dalla Scrittura, come la proverbiale “pazienza di Giobbe”.
A noi piace associarne il significato alla spiegazione delle “pazienze” che le descrive come pezzi di stoffa contenenti delle preghiere e invocazioni. A noi ciò ha fatto pensare che coloro che portano questo tipo di scapolare desiderino essere esauditi dalla Madonna nelle loro suppliche, scritte e portate sul cuore. In questo caso “patientiae” potrebbe essere associato ad un altro significato di patior, quello appunto del concedere, dell’ammettere, e quindi dell’esaudire. Questo significato lo ritroviamo anche nel Flos Carmeli come preghiera rivolta a Maria nella strofa: «Radix Jesse / germinans flosculum, / nos adesse / tecum in saeculum / patiaris», «Ceppo di Iesse, che produci il fiore [Gesù], a noi concedi di rimanere sempre con te». Patiaris: “concedi”, o Maria, ciò che ti chiediamo e che portiamo nel/sul cuore insieme allo scapolare, segno della tua materna protezione e magnanimità. Le “patientiae” sono le richieste che noi desidereremmo siano “concesse” (da patior, si ha il participio presente patiens, patientis con la forma plurale patientes, patientia al neutro, ovvero concessioni). In questo caso, lo stesso nome del contenuto sarebbe stato dato pure al contenitore.
Ciò è secondo noi un possibile significato spirituale delle “pazienze” del Carmine, che vuole semplicemente, in modo nuovo e diverso, elevare il probabile legame con il fisico “musculus patientiae”.