di P. Piero Rizza ocd
La vita di J. Roth
Joseph Roth nacque nel 1894 a Schwabendorf, presso Brody (Galizia orientale – odierna Ucraina), da madre ebrea russa e da padre austriaco, commerciante di legname, che in seguito a un dissesto finanziario si allontanò da casa ancor prima della nascita di Joseph e morì – almeno così si dice – in un manicomio di Amsterdam. L’infanzia di Joseph fu pertanto grigia e solitaria con una madre esageratamente possessiva. Studiò filosofia e letteratura tedesca prima a Leopoli, poi a Vienna. Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò come volontario; fatto prigioniero dai russi, trascorse parecchio tempo nei campi di prigionia.
Rientrato in Austria, dal 1918 lavorò come giornalista prima a Vienna, poi a Berlino. L’attività giornalistica gli permise di viaggiare per l’Europa e di distrarsi dalla penosa vicenda del suo matrimonio. Nel 1922 aveva sposato Friederike Reichler che nel 1928 si ammalò di schizofrenia. Venne prima ricoverata in clinica e poi a casa di un amico. Nel 1940 scompare vittima dell’”operazione eutanasia” in un ospedale nazista. La malattia della moglie fu per Roth una tragedia che lo indusse a una vita disordinata: senza patria, senza famiglia, senza ancoraggi. Si stordisce con l’alcol e con il lavoro, scrive nei caffè e vive in albergo. Nel 1933, per l’affermarsi dell’antisemitismo e del nazionalismo, si trasferì a Parigi.
Il 23 maggio 1939, legge per caso la notizia del suicidio dell’amico Ernst Toller, conosciuto nel 1936. Ha appena il tempo di gridare: «Questo non dovevi farlo!» e crolla privo di sensi. Trasportato all’ospedale dei poveri, morì il 27 maggio, senza aver ripreso conoscenza, per delirium tremens e sopraggiunta polmonite. Fu seppellito nel cimitero dei poveri a Parigi. Si discute ancora se durante la sua vita si sia convertito dall’ebraismo al cattolicesimo.
Nella letteratura
Tra gli autori contemporanei della letteratura narrativa Joseph Roth occupa un posto di rilievo. Con un linguaggio chiaro, immediato, colorito, percorso da flussi poetici e da pensieri profondi, ha saputo raccontare la dissoluzione storica, politica e morale della civiltà danubiana, e la disgregazione dell’ebraismo orientale. Egli ha potuto osservare le grandi trasformazioni mondiali del primo Novecento e ha sperimentato, di conseguenza, la perdita della propria patria, la discriminazione degli ebrei orientali e l’esilio.
Egli stesso diventa quasi la figura fittizia della sua narrazione, in cui isola il personaggio-tipo e attraverso le esperienze di questo cerca di rappresentare quella generazione di “sradicati” di cui suo malgrado fa parte.
Numerosi sono i temi presenti nei suoi scritti: l’ebreo che emigra verso l’Occidente (cf. Hotel Savoy, La ribellione, Fuga senza fine, Ebrei erranti); l’elogio funebre della monarchia austro-ungarica e la sua trasformazione (vedi nazionalismi) (cf. La Cripta dei Cappuccini, La marcia di Radetzky); la critica alla società e allo spirito del tempo; la descrizione del caos e dei conflitti umani nel mondo contemporaneo; l’estraneità in una società nuova, che determina la fuga (cf. Giobbe); il tema biblico della lotta contro Dio (cf. Giobbe); la perdita di identità, ecc.
Ma il tema che caratterizza il tutto è quello di sentirsi nomade, «ospite su questa terra», in nessun luogo a casa propria una volta scacciato dalla patria orientale (lo shtetl)[1]. Una sensazione che lo accompagnerà per tutta la vita e lo costringerà a un continuo errare da un hotel all’altro, in una «fuga senza fine». È il modo di essere di una personalità che non riesce a sentirsi compiutamente integrata in una realtà sociale che rinnega i più elementari valori civili e umani. Quella realtà che Roth identifica nella dissoluzione della Mitteleuropea asburgica (custode anche dei valori ebraici). Egli fa parte di una generazione privata del proprio retaggio, un sopravvissuto, perciò capace di riferire e parlare di valori di un tempo perduto. La grande quantità dei suoi personaggi, sbandati, esuli, senza fissa dimora, sta come segno per tutti coloro che dal racconto aspettano un miracolo, una risposta al perché di tanto disordine nel mondo che li circonda.
La leggenda del santo bevitore (1939)
Racconto fortemente autobiografico che termina con questa invocazione: «Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieta e serena». Fu composto da Roth pochi mesi prima di morire e pubblicato postumo. Racconto quasi profetico in quanto la morte del protagonista presenta dei tratti simili a quella dello scrittore anche se questa non fu «lieta e serena». È un gioiello di letteratura per trasparenza stilistica, bellezza e profondità di contenuto. Ha un sapore che rimanda ai Fioretti di san Francesco. Il regista Ermanno Olmi ne ha tratto un film che ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1988.
È la storia di una vita che sembrerebbe perduta e invece rifiorisce grazie a uno strano incontro. Il protagonista Andreas Kartak, originario – come Roth – delle province orientali dell’Impero austro-ungarico, è un clochard, alcolizzato, che vive a Parigi, sotto i ponti della Senna. Inoltre è clandestino a causa di un delitto commesso anni prima quando, per difendere la sua amante Caroline, ne ha ucciso il marito che voleva picchiarla a morte.
La presenza di S. Teresa di Gesù Bambino nel romanzo
Un giorno, lungo la Senna, un anziano signore gli chiede il «favore» di accettare un prestito di duecento franchi senza volere nulla in cambio, se non di restituirli, se e quando vorrà, nella chiesa di santa Maria di Batignolles, dove c’è la statua di santa Teresa di Lisieux aggiungendo che: «Se c’è qualcuno di cui lei è debitore, non può essere altri che la piccola santa Teresa» (p. 1289). Anche il suo benefattore si dichiara a sua volta in debito con la santa perché, da quando l’ha incontrata, la sua vita è cambiata: «Deve sapere che sono diventato cristiano dopo aver letto la storia della piccola Teresa di Lisieux. E adesso sono particolarmente devoto a quella statuetta della santa che è nella cappella di santa Maria di Batignolles» (pp. 1288-1289). A questa dichiarazione Roth aggiunge: «A lui era realmente toccato il miracolo della conversione. E aveva deciso di condurre la vita dei più poveri. E per questo viveva sotto i ponti» (p. 1289). Andreas accetta l’offerta e si impegna a restituire il denaro. Da allora, per molte domeniche prova a tener fede alla promessa. E se ogni volta cade vittima delle proprie debolezze – perdendo i soldi messi da parte ora per una donna, ora per un amico, ora per un bicchiere in più – mai, nemmeno per un istante, gli viene in mente di rinunciare, perché ogni nuovo “miracolo”, ogni nuova possibilità che gli è offerta – un’occasione di lavoro, un portafoglio acquistato e stranamente pieno, la generosità di un amico, un portafoglio smarrito restituitogli da un poliziotto il quale credeva fosse di Andreas – non hanno per lui altra funzione che quella di consentirgli di restituire il debito contratto prima ancora che con l’anziano signore, che incontrerà una seconda volta e che pare immemore di averlo già aiutato, con quella “signorina Teresa”.
Proprio l’apparire della piccola Teresa è il cuore della storia. Una prima volta l’incontro avverrà in un sogno nel quale «Teresa veniva a lui con l’aspetto di una fanciulla dai riccioli biondi e gli diceva: “Perché non sei stato da me la scorsa domenica?”» (p. 1301). Andreas la vedrà come anni prima aveva immaginato sua figlia, anche se non aveva figlie, e le dirà: «Ma come mi parli? Hai dimenticato che io sono tuo padre?» (pp. 1301-1302). E Teresa risponderà: «Perdona, padre, ma fammi questo piacere, e domenica mattina vieni da me nella chiesa di santa Maria di Batignolles» (p. 1302). Il secondo incontro è descritto al termine del racconto. Andreas sta per recarsi ancora una volta in chiesa per restituire il denaro e nel bistrò, dove questi si trovava con un amico, entra una ragazzina «giovanissima, giovane come gli pareva non fosse mai stata nessuna ragazza veduta prima, ed era completamente vestita di colore blu cielo. Era blu come lo può essere solo il cielo in certi giorni, e soltanto in quelli benedetti» (p. 1316). Andreas le chiede cosa fa in quel posto e la ragazzina risponde di essere in attesa dei genitori che escono dalla messa. Quando dirà che il suo nome è Teresa, Andreas risponderà: «Ma questo è bellissimo! Non avrei mai pensato che una così grande, così piccola santa, una così grande e così piccola creditrice mi concedesse l’onore di venirmi a cercare, dopo che io ho tardato tanto a venire da lei» (p. 1316).
Questo segna il cambiamento di Andreas. Ciò che lo trasforma dall’interno come ha fatto, prima di lui, con il suo benefattore, è la semplice presenza di lei, il suo porsi silenziosamente al fianco di un’umanità emarginata eppure non sconfitta, che ha ancora occhi capaci di vedere al di là della scorza delle cose e cuori capaci del miracolo della conversione.
Continuando il dialogo, Teresa protesterà che lui non le deve niente e darà ad Andreas altro denaro. Inizia così l’ultimo viaggio di Andreas: crollerà a terra e sarà trasportato in sacrestia e «la signorina di nome Teresa non può fare a meno di andare con loro» (p. 1317). In sacrestia egli «non riesce più a parlare, fa solo un gesto come per toccarsi nella tasca sinistra interna della giacca, dove è il denaro che deva alla piccola creditrice, e dice “Signorina Teresa!”, dà il suo ultimo respiro e muore» (p. 1317). Il suo compito è ormai esaurito. La santa bambina non ha fatto nulla di particolare, non ha tenuto sermoni sulla necessità della conversione, non ha redarguito, né ammonito, né rivendicato. È stata lì, silenziosamente a distanza, con l’unica – irresistibile – forza di chi ha dato senza apparente ragione e senza nulla chiedere in contraccambio.
Pur non volendo forzare le intenzioni dell’autore, proponiamo alcune considerazioni. Probabilmente la situazione esistenziale di Roth ha contribuito – anche se a sua insaputa – a mettere in luce aspetti che emergono dalla scelta di far operare la santa di Lisieux in questo racconto.
Notiamo anzitutto il disagio per un disordine che vive il protagonista. Disagio e vuoto che chiedono di essere ricomposti e superati. Nella fede Roth intravede la possibilità di questo superamento e i miracoli dei quali è oggetto Andreas sono come segnalatori di una via sicura che riconduce sempre al centro pur se all’interno del disordine personale e del mondo che lo circonda. Tutto ciò si riassume in una figura concreta: Teresa di Gesù Bambino. È lei che tiene le fila di tutti gli avvenimenti che si susseguono all’interno del racconto ed è a lei che Roth affida il compito di pacificare Andreas: ne è prova il fatto che l’incontro decisivo avvenga poco prima della morte; incontro che appare la condizione necessaria per il passaggio supremo. È una vita che può finalmente compiersi dopo la conoscenza di una ragazza che sembra identificarsi con la giovinezza stessa. La piccola Teresa è l’immagine della giovinezza/infanzia. In questo quadro c’è forse il desiderio dello scrittore di un ritorno alla patria e quindi all’infanzia.
La presenza discreta di Teresa al momento della morte sta come a confermare ciò che lei aveva promesso in vita: «Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra» e la “pioggia di rose” la si può identificare con i duecento franchi che darà ad Andreas per permettergli di saldare il debito. È una grazia che va al di là del merito del protagonista ma che invece appare merito di Andreas: ecco l’amore incondizionato di Dio che si manifesta attraverso i suoi santi.
La presenza di Teresa non si esaurisce soltanto in questo. Qui si attualizza anche l’intuizione che la santa, nel momento del buio della fede, ebbe di sedersi alla mensa dei peccatori, come partecipazione alla passione di Cristo. È il contributo alla salvezza di ogni uomo e, in questo caso, a quella di Andreas.
٭ Le citazioni del racconto La leggenda del santo bevitore sono tratte da: Joseph Roth, Opere (1931-1939), Bompiani, Milano 1991, pp. 1285-1317.
[1] cf. Giobbe nel quale si assiste alla mitizzazione dello shtetl, cioè delle comunità ebraiche diffuse in particolare nell’Europa centro-orientale, tenacemente legate alle proprie tradizioni e costumi socio-religiosi, strutturati di valori morali e religiosi. Di queste comunità Roth è un nostalgico. Il passaggio dallo shtetl all’America è traumatico: l’abbandono del luogo dell’anima per il luogo degli affari comporta la disintegrazione di una persona. Roth non nega il progresso socio-economico, ma non riesce a dimenticare la ricchezza interiore e la gioia della sua terra natale. La nostalgia per la perdita delle tradizioni dello shtetl comprende anche, in lui, il rimpianto dell’Impero asburgico e la condanna dei nazionalismi.